condannato all’ergastolo in primo grado dalla Corte d’Assise di Varese nell’aprile 2018 e poi assolto dalla Corte d’Appello di Milano, il 24 luglio 2019.
Pubblico uno stralcio della mia consulenza fornita alla difesa di Stefano Binda dopo la condanna in primo grado.
PREMESSA GENERALE
L’analisi linguistica di un interrogatorio, di una deposizione o di un’intervista si basa sul confronto tra ciò che ci aspettiamo che un soggetto dica e ciò che invece dice.
I non addetti ai lavori ritengono che la maggior parte della gente menta ed invece il 90% dei soggetti che non raccontano la verità, dissimulano, ovvero non raccontano menzogne ma semplicemente nascondono alcune informazioni senza dire nulla di falso. Chi dissimula spera nell’interpretazione delle sue parole da parte degli interlocutori.
La dissimulazione è generalmente considerata meno riprovevole della falsificazione perché, essendo un comportamento passivo, fa sentire meno in colpa. Peraltro chi dissimula può giustificarsi più facilmente di chi falsifica sostenendo di “non aver detto” a causa di una dimenticanza.
I soggetti che dissimulano evitano lo stress che produce il falsificare, uno stress che è dovuto non sempre solo al senso di colpa, posto che anche i soggetti privi di empatia, come possono esserlo i sociopatici, fanno ricorso più frequentemente alla dissimulazione che alla falsificazione, ma spesso al fatto che falsificare li espone maggiormente rendendoli vulnerabili, e quindi a rischio di essere scoperti e accusati di essere dei bugiardi.
Le dichiarazioni di chi dissimula sono comunque utili per ricostruire i fatti.
Dissimulano e falsificano senza provare senso di colpa coloro che si ritengono paladini di una “nobile causa”. Tale fenomeno si chiama “Noble Cause Corruption” ed è ben noto a chi si occupa di errori giudiziari.
Sia chiaro che non esistono giustificazioni né alla falsificazione né alla dissimulazione e che solo dicendo il vero si favorisce l’accertamento della verità e di eventuali responsabilità.
Analisi di un primo stralcio:
Riguardo alla conversazione intervenuta tra Patrizia Bianchi e Stefano Binda il giorno 7 gennaio 1987 su una eventuale arma del delitto, riporto e analizzo uno stralcio di un verbale d’udienza del 7 luglio 2017. L’analisi è in neretto.
BIANCHI: Io quel giorno telefonai subito a Stefano (…) dissi… perché volevo dire “Guarda che hanno trovato Lidia uccisa ma io non so esattamente come l’hanno uccisa”, invece di dire questa cosa dissi… (interrotta dalla PM).
PM: Scusi mi sono distratta.
Si noti che, dopo il primo “dissi”, la teste si autocensura e poi non dice che cosa disse al Binda ma riferisce che cosa avrebbe voluto dire. Chi è chiamato a riferire ciò che ha detto in una certa occasione non ha motivo di riferire ciò che avrebbe voluto dire.
La Bianchi mostra di voler prendere tempo per rispondere e poi purtroppo viene interrotta dalla PM.
(…)
PM: Va bene, allora, in quel mercoledì le telefona Cattari e le dice: “Hanno trovato Lidia”. Lei cosa fa?
BIANCHI: Allora io telefono subito al mio amico.
PM: Stefano.
BIANCHI: Stefano, per dirglielo. E appunto mentre gli raccontavo che era morta Lidia, mi sono resa conto che non mi aveva detto Cattari come era stata uccisa.
Si noti che la Bianchi non dice: “Ho detto a Stefano che Lidia era morta” ma un generico “mentre gli raccontavo che era morta Lidia” che le permette di riferirsi all’intera conversazione.
PM: Ma che fosse stata uccisa era pacifico dalla telefonata di Cattari?
Da notare che la PM si riferisce alla telefonata intercorsa tra la Bianchi e il Cattari, non a quella intercorsa tra la Bianchi e il Binda, nessuno ha mai messo in dubbio che il Cattari avesse informato la Bianchi della morte di Lidia.
BIANCHI: Sì, sì, sì.
Si noti l’enfasi. Immaturità? Desiderio di compiacere? L’enfasi stona non poco in una deposizione in un processo per omicidio.
PM: Sì?
BIANCHI: Sì, sì, era stata trovata, eccetera.
Si noti ancora la ripetizione del “Sì”.
E’ interessante che una teste in una deposizione così delicata, in un processo per omicidio, usi un termine vago come “eccetera”, non è un caso, la Bianchi dissimula ed il suo è un tentativo di chiudere l’argomento lasciando ai suoi interlocutori l’interpretazione del termine “eccetera”.
PM: No, “eccetera” signora, è importante. Era stata trovata morta perché le è venuto un ictus da sola nella notte o era stata trovata morta assassinata?
La PM se ne accorge e la invita ad essere precisa.
BIANCHI: No, no, uccisa.
Si noti la ripetizione del “No”.
PM: Le ha detto anche come?
BIANCHI: No. Non mi ha detto come e, mentre stavo raccontando a Stefano questa cosa, ho, come dire… volevo dirgli “Guarda”… (interrotta dalla PM).
Da notare che, per la seconda volta, la PM interrompe la teste e sempre mentre la stessa sta per riferire che cosa disse al Binda.
Si noti che, ancora una volta, la Bianchi non dice che cosa disse al Binda ma afferma “mentre stavo raccontando a Stefano questa cosa”.
“questa cosa” quale? “questa cosa” è un termine vago, la Bianchi continua a dissimulare.
Infine, invece di dire che cosa disse al Binda torna a riferire alla PM, per la seconda volta, che cosa avrebbe voluto dirgli “volevo dirgli “Guarda”…”.
PM: Lo dica bene, lo dica bene, lei telefona a Stefano e gli dice?
BIANCHI: E gli dico: “Guarda… eh….”, no, voglio fare una premessa nel senso che volevo dirgli “Guarda che non so come è stata uccisa perché Cattari non me l’ha detto”, invece mi è uscito: “Non… ehm… non trovano l’arma del delitto!”. Mentre lo dicevo, ho detto: “Ma cosa sto dicendo!” No? E stavo dicendogli: “Guarda che ho sbagliato a dire”, e lui però mi ha subito violentemente chiesto: “Cosa hai detto dell’arma del delitto?”. Ma come non aveva fatto mai, cioè mi ha aggredito di continuo. Perché io cercavo di spiegargli: “Guarda, no, ma aspetta un attimino perché io ho sbagliato a parlare, volevo dire un’altra cosa e lui ripetutamente mi ha detto… voleva sapere dell’arma del delitto “Dimmi cosa hanno detto dell’arma del delitto?”. E a me… lì avevo detto“Vabbe’ ma cosa ti importa? Cioè non sarai mica stato tu, no?”, però… come dire, come pensiero che mi è passato e che è subito stato archiviato, perché cioè…
Si noti che la Bianchi, mentre sta per dire ciò che avrebbe detto al Binda “E gli dico: “Guarda… eh….” si autocensura. E’ la seconda volta che la teste si autocensura e sempre mentre sta per riferire il contenuto della telefonata; la prima volta dopo aver detto “Io quel giorno telefonai subito a Stefano (…) dissi… perché volevo dire”, la Bianchi si è interrotta dopo il “dissi” per fare una premessa e per poi non concludere la frase relativa al contenuto della telefonata.
E’ ancora di nessuna utilità il riferimento che la Bianchi fa, per la terza volta, a ciò che avrebbe voluto dire al Binda, ma che non gli disse, ciò che ci interessa è ciò che effettivamente gli disse.
Finalmente la Bianchi riferisce alla PM le parole dette al Binda, lo fa con un ritardo significativo “Guarda… Non… ehm… non trovano l’arma del delitto!”.
In sintesi, la Bianchi chiamò Stefano Binda e gli disse, senza fare alcuna premessa: “Guarda… Non… ehm… non trovano l’arma del delitto!”, è stata lei a dircelo e a dirci anche di essersi subito resa conto di aver “sbagliato a dire” in quanto, dopo aver riferito che cosa disse al Binda ha aggiunto “Mentre lo dicevo, ho detto: Ma cosa sto dicendo! No? E stavo dicendogli: Guarda che ho sbagliato a dire” e “Guarda, no, ma aspetta un attimino perché io ho sbagliato a parlare, volevo dire un’altra cosa”.
A questo punto la domanda del Binda “Dimmi cosa hanno detto dell’arma del delitto?” non può che apparire logica. Fu la Bianchi ad introdurre il tema “arma del delitto” ed è chiaro che, poiché lo fece senza riferire a Stefano Binda che la Macchi era stata uccisa, lui le chiese spiegazioni.
Peraltro la frase “Dimmi cosa hanno detto dell’arma del delitto?” non rappresenta l’esatta riproduzione delle parole pronunciate dal Binda il 7 gennaio del 1987 ma un’interpretazione delle stesse operata dall’amica dell’epoca Patrizia Bianchi.
Da notare che Patrizia Bianchi, pur conoscendone i diversi significati ed essendo consapevole di essere stata chiamata a testimoniare in un processo dove l’imputato rischia l’ergastolo, non è chiara, infatti, in ben due occasioni usa un escamotage linguistico, ovvero sostituisce il verbo “detto” al verbo “pensato”: “Mentre lo dicevo, ho detto: Ma cosa sto dicendo!” e “lì avevo detto: Vabbe’ ma cosa ti importa? Cioè non sarai mica stato tu, no?”.
PM: Perché Stefano era il suo amico del cuore.
BIANCHI: Esattamente. Ma mi sono anche vergognata di averlo fatto. Però mi ha colpito tantissimo questa violenza che non aveva mai usato con me.
Ancora una volta la Bianchi ammette il proprio errore dicendo “Ma mi sono anche vergognata di averlo fatto”.
E mostra ancora una volta di aver bisogno dell’enfasi, si notino i termini “Esattamente”, “tantissimo” e “violenza”. Si noti anche che la Bianchi associa alla parola “violenza” il termine “usato” senza specificare di che tipo di “violenza”stia parlando.
(…)
BIANCHI: Da una parte violenta, dall’altra parte continuativa, cioè non mi lasciava spiegare e continuava a dirmi “Cosa hai detto?”, “Ti ho detto: Cosa hai detto dell’arma del delitto?”.
Si noti l’uso della parola “violenta”.
Ancora una volta occorre sottolineare che “Cosa hai detto?” e “Ti ho detto: Cosa hai detto dell’arma del delitto?”, due frasi attribuite dalla Bianchi al Binda, non sono le esatte parole pronunciate da Stefano Binda ma un’interpretazione delle parole del Binda operata dalla teste Bianchi.
(…)
PM: Ha detto “Non trovano l’arma del delitto”?
BIANCHI: “… l’arma del delitto”.
La Bianchi conferma di aver detto soltanto “Non trovano l’arma del delitto”.
PM: Eh!
BIANCHI: Sì, ma io volevo dire non tanto “Non trovano…” perché chi ha detto: “Non trovano l’arma del delitto”? Nessuno. A me Cattari ha detto: “E’ stata uccisa”, e io non sapevo come era stata uccisa e quindi volevo dire “Guarda che non so come è stata uccisa”; ho sbagliato io a parlare rispetto all’intenzione che avevo…
Per la terza volta la Bianchi si autocensura interrompendosi dopo le parole “Non trovano…” ma comunque ci conferma per la terza e quarta volta di aver iniziato la conversazione con Stefano Binda dicendo, senza premesse, “Non trovano l’arma del delitto”.
“E’ stata uccisa” è una frase del Cattari, nessuno ha mai messo in dubbio che il Cattari abbia riferito alla Bianchi che Lidia fosse stata uccisa.
Per la quarta volta la Bianchi ripete “volevo dire”.
Ancora una volta la Bianchi ammette il proprio errore dicendo “ho sbagliato io a parlare rispetto all’intenzione che avevo…”.
In sintesi dall’analisi di questo stralcio emerge che il 7 gennaio 1987 il Cattari riferì alla Bianchi che Lidia era stata uccisa, la Bianchi, invece, non lo riferì al Binda ma gli disse d’emblée “Non trovano l’arma del delitto”. Si noti che, durante la sua deposizione, la Bianchi ha ripetutamente ammesso di essersi subito resa conto del fatto che era stata lei ad aver “sbagliato a parlare”.
Stupisce che a pag. 147 delle Motivazioni della sentenza di primo grado i giudici si lascino andare ad un giudizio morale sul Binda: “In pratica anziché consolare l’amica addolorata e condividere con lei il cordoglio per quel terribile evento, ne sottolinea l’errore grammaticale-sintattico d’espressione”, ma soprattutto occorre sottolineare che quello della Bianchi non fu un errore grammaticale-sintattico d’espressione, in poche parole la Bianchi non sbagliò a coniugare un verbo, Patrizia Bianchi fece un grossolano errore di concetto del quale si rese conto lei stessa, parlò di un’arma del delitto che non si trovava senza prima riferire al Binda che Lidia era morta, pertanto trova giustificazione la reazione del Binda.
Il contesto è la chiave, il Binda e la Bianchi non stavano parlando di lucciole o di carillon ma dell’amica Lidia Macchi che era scomparsa da 2 giorni e il Binda semplicemente non “perdonò” alla Bianchi la sua leggerezza in una circostanza così drammatica.
Analisi di un secondo stralcio della deposizione di Patrizia Bianchi del 7 luglio 2017
DIFESA, AVV. ESPOSITO: Torniamo a quella telefonata che mi sembra sia stato un elemento per lei un po’ scatenante successivamente i ricordi e quello che è. Lei ricorda con precisione che cosa ha detto a Stefano e cioè: “Hanno trovato Lidia uccisa”, “Hanno trovato Lidia ma non hanno trovato l’arma del delitto”?.
BIANCHI: Sì. Allora, io ho detto che hanno trovato Lidia uccisa e quello che io ho detto A LUI è che non si trova l’arma del delitto. Con tutto quello che avevo pensato, cioè volevo dire un’altra cosa, in realtà ho detto “Ma non trovano l’arma del delitto”.
Da notare che la Bianchi inizialmente dice “Allora, io ho detto che hanno trovato Lidia uccisa” senza dire a chi e in quale momento della conversazione telefonica, però poi risponde con precisione all’avvocatessa Esposito riferendo ciò che disse “A LUI” ovvero a Binda: “quello che io ho detto a lui è che non si trova l’arma del delitto” e “Ma non trovano l’arma del delitto”, confermando ciò che aveva sostenuto in precedenza, ovvero di aver parlato di un’arma del delitto senza prima aver fatto riferimento all’omicidio di Lidia.
Si noti che per la quinta volta la Bianchi dice che avrebbe voluto “dire un’altra cosa”.
E’ logico supporre che la Bianchi, nel proseguo della conversazione telefonica col Binda, gli abbia riferito che Lidia era stata ritrovata e che era stata uccisa ma si può escludere, perché è stata lei a dircelo, che lo abbia fatto prima di parlare dell’arma del delitto.
DIFESA, AVV. ESPOSITO: Lei è sicura di aver detto…
BIANCHI: Sono certa!
La Bianchi interrompe l’avvocatessa e risponde ad una domanda che ancora non le è stata posta con un “Sono certa!”. Di cosa sia “certa” resterà un mistero.
Non nuoce ricordare che l’udienza durante la quale la teste ha deposto è un’udienza di un processo per omicidio, pertanto appare a dir poco un atteggiamento superficiale il dirsi certi prima di aver udito la domanda.
DIFESA, AVV. ESPOSITO: “Hanno trovato Lidia uccisa”?
BIANCHI: Sì, sono certa, perché mi disse così il mio moroso.
La Bianchi dice “Sì” ma poi indebolisce la sua risposta aggiungendo “sono certa” e “perché mi disse così il mio moroso” mostrando di avere bisogno di convincere. Si noti che la Bianchi non riesce a ripetere le parole dell’avvocatessa Esposito “Hanno trovato Lidia uccisa”, le sostituisce infatti con il termine vago “così”.
Come già detto, non vi è dubbio che durante la telefonata del 7 gennaio 1987 la Bianchi abbia riferito al Binda che Lidia era stata ritrovata morta ma lo fece solo dopo avergli detto che non si trovava l’arma del delitto e dopo le rimostranze del Binda.
Peraltro, il fatto che il Cattari avesse detto alla Bianchi che Lidia era morta e che la Bianchi lo ripeta, non implica che la stessa lo abbia riferito al Binda nelle fasi iniziali della loro conversazione telefonica.
In sintesi, è stata la Bianchi a riferire sia alla PM che all’avvocatessa Esposito di aver detto al Binda “Non trovano l’arma del delitto!” e di averlo detto senza fare premesse, trova pertanto giustificazione la domanda che il Binda le pose all’epoca dei fatti.
Sia chiaro che, se il 7 gennaio 1987 Patrizia Bianchi avesse chiamato Stefano Binda e gli avesse detto “Hanno ritrovato Lidia, è stata uccisa ma non si trova l’arma del delitto” le sarebbero bastate 14 parole per riferirlo alla Corte ed invece, durante l’udienza del 7 luglio 2017, quando a Patrizia Bianchi è stato chiesto di precisare in che cosa consistesse il contenuto della telefonata intercorsa tra lei e Stefano Binda relativa al ritrovamento del cadavere di Lidia Macchi, la teste:
- 1) ha inserito informazioni non necessarie per prendere tempo per rispondere;
- 2) ha fatto ricorso all’autocensura almeno tre volte;
- 3) ha riferito di continuo ciò che avrebbe voluto dire al Binda ma che non gli disse;
- 4) ha fatto ricorso a termini vaghi quali “eccetera”, “questa cosa”, “così”, lo ha fatto per lasciare che fossero i suoi interlocutori a caricarli di contenuti;
- 5) ha fatto volutamente confusione tra le parole “detto” e “pensato” di cui non può non conoscere i significati essendo laureata.
Ed infine, ha riferito sia alla PM che all’avvocatessa Esposito di aver inizialmente detto al Binda “Non trovano l’arma del delitto”, nulla di più, e ha poi ammesso di aver “sbagliato a dire”.
Vale la pena di trascrivere ciò che ha detto Stefano Binda relativamente alla telefonata in questione durante l’udienza del 16 gennaio 2018:
BINDA: Però sempre in favore della Corte, più precisamente Patrizia Bianchi dice: Io chiamo, ho intenzione di dire che non si sa com’è stata uccisa ma poi in realtà mi viene fuori la frase “Non hanno trovato l’arma del delitto”, questo è tipico di Patrizia Bianchi.
PM: E perché lei si è arrabbiato così tanto?
BINDA: Allora, questo è plausibile che se, ad esempio, mi ha detto che è stata ritrovata e poi mi dice con l’intenzione di dirmi, ha capito l’intenzione, di dirmi “Non si sa com’è stata uccisa” ma mi dice “Non si trova l’arma del delitto” cioè, se al di fuori della testa di Patrizia Bianchi, ciò che è stato detto è “Hanno ritrovato Lidia ma non si trova l’arma del delitto”, mi manca un pezzo sostanziale che è l’uccisione, che è il fatto che è stata ritrovata priva di vita. Che io abbia detto “Ma scusa quale arma del delitto? Cosa hai detto dell’arma del delitto?”. Per come la conosco io, che lei quindi si sia impastronata “No, non ho detto arma del delitto” e che io formalmente, anche un po’ irritato, trovo urticante questo modo di fare di Patrizia Bianchi, gli abbia detto “No, no, tu hai nominato l’arma del detto, dimmi per favore in che senso”, questo è plausibile, sì. Non lo ricordo dettagliatamente ma quando Patrizia Bianchi racconta questo è plausibile.
PM: Scusi non ho davvero capito che cosa lei trovi urticante, non ho capito.
BINDA: All’epoca, adesso non la frequento più ma era tipico di Patrizia Bianchi pensare una cosa, ma l’ha dichiarato lei, eh, cioè pensare di dire “Non si sa come è stata uccisa”, in realtà dire “Dov’è l’arma del delitto” ed attribuire le reazioni delle persone non a quanto ha detto ma a quanto aveva intenzione di dire. E questo siccome crea incomprensione, crea dei problemi, è una cosa che a me sta un po’ sui nervi ma nulla di..
Binda è credibile, Patrizia Bianchi ha confermato di non avergli detto che Lidia era morta ed era stata uccisa.
Peraltro, Don Sotgiu durante l’incidente probatorio ha parlato di Patrizia Bianchi in questi termini: “Per me è una ragazza che ai tempi… ricordo, ai tempi del liceo, con la testa un po’ nelle nuvole, molto ingenua”.
Premessa all’analisi di un terzo stralcio
Per quanto attiene agli appunti della teste Bianchi relativi ad alcune conversazioni intercorse tra lei e Stefano Binda nel 1987, dalle quali la stessa, a suo dire, estrapolò e trascrisse anche a distanza di due giorni alcune frasi del Binda, naturalmente ciò che la Bianchi scrisse sui suoi diari e che ha ingenuamente attribuito a Stefano Binda non può corrispondere alle esatte parole da lui pronunciate, posto che nessuno, neanche dopo pochi secondi, è capace di riprodurre le parole del proprio interlocutore, figuriamoci dopo due giorni. Una riproduzione di un colloquio intervenuto tra due soggetti e non registrato è viziata non solo dal tempo intercorso tra il colloquio e la trascrizione ma anche da fattori relativi che hanno a che fare con il trascrivente: cultura, quoziente intellettivo, stato d’animo del momento, eventuale coinvolgimento emotivo, fatti occorsi in precedenza ed in seguito al colloquio, etcetera, etcetera. Va da sé che le frasi riportate dalla teste Patrizia Bianchi sul suo diario e attribuite dalla predetta al Binda non solo non rappresentano null’altro che una personale interpretazione delle parole del Binda operata dalla teste Bianchi ma sono anche state estrapolate dal contesto in cui vennero pronunciate.
Analisi di un terzo stralcio della deposizione della Bianchi del 7 luglio 2017
BIANCHI: Okay. E va bene. Poi successivamente, ma era appena successo il… la morte della Lidia ehm… ho un ricordo di… noi, di io e Stefano Binda che usciamo da San Vittore.
PM: Più o meno nel tempo me lo posiziona?
BIANCHI: E era appena successa la cosa della Lidia perché…
PM: La settimana dopo? Più o meno?
BIANCHI: Era vicina, perché… perché lui mi ha detto: “Tu non sai cosa sono stato capace di fare”. E io che era appena stata… che era appena… ehm… come dire, stata uccisa Lidia… eh… gli dissi… ehm…: “Potresti aver ucciso tua mamma ma nello stesso tempo io ti resterò sempre amica”.
In primis “Tu non sai cosa sono stato capace di fare” non è una frase di Stefano Binda, è semplicemente una frase che Patrizia Bianchi, dopo una conversazione intercorsa tra lei e Stefano Binda, trascrisse sulla sua agenda dell’85/86 e, a suo dire, ben due giorni dopo aver parlato con Stefano Binda, non qualche secondo dopo, ma ben due giorni dopo.
Peraltro, non solo la frase “Tu non sai cosa sono stato capace di fare” non si può attribuire a Stefano Binda con certezza perché non è stata trascritta dopo essere stata registrata ma può voler dire un’infinità di cose, è infatti un modo di dire usato per riferire sciocchezze che si possono fare se distratti, come “Non sai cosa sono stato capace di fare, ho chiuso le chiavi nell’auto”.
Da notare che è ancora una volta la Bianchi ad introdurre un tema scottante come può esserlo il matricidio quando dice: “Potresti aver ucciso tua mamma ma nello stesso tempo io ti resterò sempre amica”, peraltro è la Bianchi a riferire che intendeva dire che se il Binda avesse ucciso Lidia e non la propria madre, lo avrebbe perdonato, un’affermazione di un certo interesse e che fa luce sulla personalità della Bianchi, ma che è evidentemente passata inosservata ai giudici, i quali, in questo caso, si sono astenuti dall’emettere un giudizio morale.
Si può supporre che la Bianchi abbia detto la frase “Avresti anche potuto uccidere tua mamma ma io ti rimarrò sempre amica” per punzecchiare il Binda, per provocare in lui un reazione. E’ la stessa Patrizia Bianchi a riferirci che, già il 7 gennaio 1987, aveva pensato “Cioè non sarai mica stato tu (Stefano Binda), no?”,e da quel momento la Bianchi ha cominciato a spiegarsi alcuni avvenimenti di cui era protagonista il Binda come riferibili all’omicidio di Lidia, è infatti ancora la Bianchi a sostenere che la frase “Tu non sai cosa sono stato capace di fare”, da lei attribuita al Binda, si riferisse ad “una cosa enorme”, non Stefano Binda.
Durante l’udienza del 23 giugno 2017 Pietro Catania che era stato fidanzato con Patrizia Bianchi dal 1990 al 1993 ha riferito che durante gli anni di fidanzamento: “Patrizia Bianchi mi disse in due circostanze, che io ricordo distinte, che lei aveva il pensiero, il sospetto, non ricordo l’espressione usata esatta che lei utilizzò, che Stefano Binda potesse essere l’autore di questo delitto”.
La Bianchi sospettò da subito che l’assassino di Lidia potesse essere Stefano Binda perché, come è emerso nel corso del processo, Binda non condivideva tutto della propria vita con lei, avendone peraltro ogni diritto.
(…)
PM: No, lei ha risposto: “Avresti anche potuto uccidere tua mamma ma io ti rimarrò sempre amica”?
BIANCHI: Sì.
PM: E cosa c’entrava la mamma di Stefano Binda?
BIANCHI: Niente perché volevo dire: “Avresti anche potuto uccidere la Lidia” ma non… mi sembrava così… assurdo che ho detto la… tua mamma.
PM: Cioè, si vergognava a dire…?
BIANCHI: Mi vergognavo a morte di… di… mentre gli stavo dicendo questa cosa.
PM: Ma io ti rimarrò sempre amica.
BIANCHI: Ma io ti rest… io mi ricordavo questa… questa frase che gli avevo detto e all’inizio, io non ho testimoniato questa cosa perché non ero certa, cioè non mi ricordavo bene i passaggi che mi avevano fatto arrivare a questo. Quando mi hanno chiesto le agende, io le ho sfogliate e ho trovato che…
(…)
PM: Scusi mi faccia fare la domanda: Come le sorge questa frase pesante che lei dice al suo amico del cuore molto amato e molto frequentato con cui ha condiviso la vita? Come le sorge questa frase pesantissima?
BIANCHI: Perché lui aveva detto: “Tu non sai cosa sono stato capace di fare” ed era una cosa enorme per cui gli stavo rispondendo, puoi aver fatto tutte le cose enormi che vuoi ma ti sono sempre amica. Mi sorge in questo modo.
E’ la Bianchi a sostenere che “Tu non sai cosa sono stato capace di fare” si riferisse ad “una cosa enorme” non Stefano Binda.
(…)
BIANCHI: No, no, la annoto quando me l’ha detta, perché me la sono annotata. Potrebbe essere stata scritta due giorni dopo, ma senz’altro quando è successo.
Non può sfuggire a questa consulente:
-
- sia il fatto che la frase “Tu non sai cosa sono stato capace di fare” fu riportata dalla Bianchi non sull’agenda del 1987 sulla pagina della data riferita dalla teste ma “sulla pagina del 24 marzo dell’agenda 85/86” (pag. 50 delle Motivazioni della sentenza di primo grado);
- sia il fatto che la Bianchi abbia sostenuto che “questa conversazione sarebbe avvenuta in concomitanza ad una funzione commemorativa di Lidia, non ricorda la Bianchi se quella del 10 gennaio ’87 o quella del 5 febbraio ’87 entrambe annotate sulla sua agenda come funzioni per Lidia presso la chiesa di S. Vittore” (pag. 50 delle Motivazioni della sentenza di primo grado).
In poche parole, la Bianchi annotò alla data corrispondente di essere stata alle funzioni ma non la fantomatica frase “Tu non sai cosa sono stato capace di fare”, appare pertanto lecito avere dei dubbi che quella frase sia stata pronunciata dal Binda proprio in una delle due occasioni cui fa riferimento la teste, posto che anche i giudici ritengono che in questo particolare caso giudiziario “Il lungo decorso del tempo tra i fatti e le deposizioni rese ha appannato il ricordo preciso di quanto accaduto ed ha sovrapposto i ricordi” (Pag. 91 delle Motivazioni della sentenza di primo grado).
Ma veniamo all’episodio del sacchetto del pane citato a pag. 51/52 delle Motivazioni della sentenza di primo grado:
“Uno o due giorni dopo la morte di Lidia, Stefano era andato a prendere Patrizia a casa con la sua Fiat 131 bianca (…) aveva parcheggiato, era sceso dall’auto con un sacchetto in mano, precedentemente posizionato sul pianale con all’interno qualcosa di rigido, in quanto il sacchetto rimaneva in piedi, era risalito in mano senza il sacchetto (…) Il luogo sconosciuto verrà identificato dagli inquirenti nel parco Mantegazza di Varese, dove sarà cercato senza esito il coltello, arma del delitto di Lidia, che si supponeva essere contenuto nel sacchetto”
Da notare che, quando i giudici scrivono “Uno o due giorni dopo la morte di Lidia”si riferiscono all’8/9 gennaio, pertanto è scorretto dire “dopo la morte” perché Lidia è morta il 5 gennaio. I giudici avrebbero dovuto scrivere “Uno o due giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Lidia”, ovvero “uno o due giorni dopo” il 7 gennaio. E’ interessante che i giudici, come Stefano Binda, facciano coincidere il giorno del ritrovamento di Lidia con il giorno della sua morte. E’ pertanto credibile Stefano Binda quando afferma di aver sempre ritenuto che Lidia fosse scomparsa il 5 e morta il 7 gennaio, non nuoce ricordare che all’epoca dei fatti Binda aveva solo 20 anni e non era di certo un esperto criminologo.
Riguardo ai sospetti della Bianchi relativi al sacchetto del pane, è impensabile che in quel sacchetto ci fosse l’arma del delitto, la casistica insegna: chi commette un omicidio si libera subito dell’arma del delitto e non dopo 4 giorni dal fatto, né tantomeno lo fa in compagnia di un’amica occultandola in un curato e frequentatissimo parco cittadino all’interno di un sacchetto di carta.
A tal riguardo, è significativo ciò che, durante l’udienza del 16 gennaio 2018, ha detto l’avvocato di parte civile, Pizzi: “Sono stato il primo a dire che probabilmente era molto inverosimile il fatto che una persona, che poteva sbarazzarsi di un coltello ovunque, avesse scelto proprio il parco Mantegazza facendosi accompagnare da qualcuno”.
Riflessione generale sul linguaggio utilizzato dalla Bianchi
La teste Patrizia Bianchi, sia durante l’incidente probatorio del 15 febbraio 2016 che durante la sua deposizione del 7 luglio 2017, ha spesso usato termini che rivelano non solo una certa immaturità ma anche un bisogno di convincere, un bisogno che coloro che dicono il vero non hanno perché possiedono il cosiddetto “muro della verità” che è una potente ed impenetrabile barriera psicologica che gli permette di non far ricorso all’enfasi e di rispondere con poche parole alle domande che gli vengono poste.
Faccio alcuni esempi:
BIANCHI: (…) e lui (Don Sotgiu) mi ha detto: “No, non ci devi andare, non l’hai mai conosciuto per quello che è. E’ pericoloso, è inaffidabile e non ci devi assolutamente passare” (…) mi ha spaventato per come me l’ha detto (…) la potenza con cui lui mi ha detto questa cosa è stata determinante perché io mi fermassi (dall’incidente probatorio del 15 febbraio 2016).
Si notino i termini “pericoloso”, “assolutamente”, ”spaventato” e “potenza”. La Bianchi in questa occasione stava riportando un colloquio avuto con Don Giuseppe Sotgiu, il quale non ha mai confermato di aver definito Binda “pericoloso”, un termine non di poco conto, in specie quando il soggetto definito come “pericoloso” è imputato in un processo per omicidio.
BIANCHI: Dice: “Non farlo, non è assolutamente la persona che tu hai conosciuto e che credi di aver incontrato, è inaffidabile”. Mi ha detto una parola come “è pericoloso” ma non mi ha detto la parola, me ne ha detto un’altro che mi ha terrori… cioè la sensazione mi ha terrorizzato. Ho provato ad insistere e lui mi ha detto “Assolutamente non farlo, non andare” (…) mi ha proprio messo in guardia da lui (dalla deposizione del 7 luglio 2017).
Si notino i termini “assolutamente” ripetuto due volte, “pericoloso” e “terrorizzato” ripetuto due volte, attraverso l’uso dei quali la Bianchi mostra di aver bisogno di far presa sull’emotività di chi l’ascolta per risultare convincente.
Non può, peraltro, passare inosservato il fatto che durante l’incidente probatorio la Bianchi abbia sostenuto che Don Sotgiu usò il termine “pericoloso” per definire Binda mentre in questa occasione ha cambiato versione e ha riferito “Mi ha detto una parola come “è pericoloso”. Una leggerezza non da poco in un processo per omicidio.
BIANCHI: (…) e la cosa che mi ha colpito tantissimo, perché è come ha reagito Stefano (…) (dall’incidente probatorio del 15 febbraio 2016).
Si notino i termini “colpito” e “tantissimo”. Ancora una volta la Bianchi si racconta da un punto di vista emotivo, descrive le sue sensazioni, colora fatti di nessun valore per far presa sugli interlocutori.
BIANCHI: Lui mi ha detto: “Non sai cosa sono stato capace di fare” e allora ho pensato immediatamente a una cosa grandissima; per cui siccome era stata appena uccisa la Lidia, è ovvio che mi è venuto in mente “Cos’è una cosa grandissima? Potrebbe essere anche aver ammazzato qualcuno” (…) mi sembrava bruttissimo dire la Lidia (…) (dalla deposizione del 7 luglio 2017).
Si notino i termini “immediatamente”, “una cosa grandissima” e “bruttissimo”.
BIANCHI: (..) e mi ha detto (Binda): “Non toccare assolutamente quel sacchetto” (dall’incidente probatorio del 15 febbraio 2016).
Si noti il termine “assolutamente”.
Nella borsa che, il giorno della sua morte, Lidia aveva con sé gli inquirenti hanno trovato un lungo elenchi libri di autori classici quali Proust, Goethe, Joyce, Mann, Moravia, Pascoli, Pavese, Pirandello, Platone, Sartre, Eliot, Deguy etc etc. Durante l’incidente probatorio del 15 febbraio 2016, in merito la teste Patrizia Bianchi ha detto: “Beh, mi sono impressionata perché era un elenco di libri… libri che mi erano stati… beh, molti di quelli mi erano stati consigliati da Stefano, altri dal Don Fabio e Stefano”.
Si noti l’uso del termine “impressionata” che non può che apparire fuori luogo, in specie perché non c’è nulla di particolare nella lista dei libri di Lidia, nulla di esclusivo che possa rimandare a Stefano Binda e a lui soltanto. La lista dei libri di Lidia è una lista di libri che tutti noi liceali e studenti universitari di quell’epoca abbiamo letto e soprattutto senza che fosse stato Stefano Binda a consigliarceli.
Dall’incidente probatorio del 15 febbraio 2016:
PM: Senta ma lei è a questo punto che ha pensato ad un possibile coinvolgimento di Binda in questa vicenda oppure no? Che cosa ha pensato?
La PM si riferisce all’episodio del sacchetto del pane.
BIANCHI: Allora, io non ho mai voluto pensare niente su questa cosa, perché quando mi è stato chiesto dell’arma del delitto al telefono, mi è venuto subito paura e mi è venuto subito in mente: “Ma perché? Cioè non sarai mica stato tu, no?”. Ma non ho voluto, come dire, dare credito a quello che stavo pensando e mi sono vergognata. Quando…. quando c’era… questo sacchetto, io non ho fatto delle connessioni strane. C’era questo sacchetto e io… sono stata zitta e non ho chiesto niente perché capivo che era meglio così.
Quando la Bianchi dice: “Allora, io non ho mai voluto pensare niente su questa cosa” mente, ce lo confermano alcune circostanze:
- 1) è stata lei a dire, riferendosi al 7 gennaio 1987: “mi è venuto subito in mente: Ma perché? Cioè non sarai mica stato tu, no?”;
- 2) è stata ancora la Bianchi a riferire che già nel 1987 riferì dei propri sospetti a Mara Moretti, oggi psicologa;
- 3) tra il 1990 e il 1993, parlò dei propri sospetti anche con l’ex fidanzato, Pietro Catania;
- 4) nel 2015 ha creduto di avere informazioni di rilievo riguardo all’omicidio di Lidia Macchi dopo aver visto due show televisivi, Blue Notte e Quarto Grado.
Occorre sottolineare un tentativo di manipolazione della Bianchi, la stessa ha infatti avuto l’ardire di riferirsi alla telefonata col Binda definendola “quando mi è stato chiesto dell’arma del delitto al telefono”, eppure sappiamo che fu lei ad introdurre, senza premesse, il tema “arma del delitto”. Si noti, inoltre, che la Bianchi non riesce a dire “quando Binda mi ha chiesto dell’arma del delitto al telefono” ma usa invece il verbo al passivo per nascondere l’identità del suo interlocutore in quanto non vuole attribuirgli la responsabilità di quella richiesta perché è consapevole del fatto che la domanda del Binda fu logica e lecita.
Si noti il termine “paura” che serve a rinforzare ciò che sta per dire, a creare suspense, a mantenere alto il livello di attenzione dei suoi interlocutori.
Si noti la frase ad effetto “perché capivo che era meglio così”, una frase che la Bianchi non ha ragione di pronunciare.
CONCLUSIONI
Durante le sue deposizioni sui temi ritenuti dall’accusa più scottanti, la teste Patrizia Bianchi:
- 1) ha nascosto informazioni autocensurandosi;
- 2) ha dissimulato facendo ricorso ad escamotage linguistici;
- 3) ha usato termini vaghi perché fossero i suoi interlocutori a caricarli di significati;
- 3) ha poi usato di frequente termini forti, avverbi e aggettivi di grado superlativo assoluto per apparire convincente.
In poche parole, riguardo agli stralci di deposizione esaminati, la Bianchi ha mostrato di non potersi avvalere della protezione del cosiddetto “muro della verità” che, come già detto, è una potente ed impenetrabile barriera psicologica che posseggono coloro che dicono il vero e che gli permette di non far ricorso all’enfasi e di rispondere con poche parole.
P.S. I giudici dell’Appello così si sono espressi sulla cosiddetta “superteste” dell’accusa Patrizia Bianchi: “Non vi è un solo fatto riferito (da Patrizia Bianchi) che possa dirsi rilevante per il processo penale, solo e soltanto la descrizione di un profondo trasporto emotivo (…) Non è una sua responsabilità se fin dai primi colloqui ‘informativi’ con la vice ispettrice NANNI e, poi, da presunta informata sui fatti, ogni sua dubbiosa congettura ed ogni suo labile sospetto siano stati valutati alla stregua di un “Ipse dixit” (…) Né, infine, è sua responsabilità se una mera confabulazione, un suo falso ricordo (giacché, viceversa, occorrerebbe configurare smaccata mala fede), immeritevole non solo di approfondimento ma persino di interesse investigativo, abbia comportato nientemeno che lo ’sbancamento’ con l’intervento dell’Esercito – del Parco Mantegazza.”
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* Medico chirurgo e criminologo, allieva di Peter Hyatt, uno dei massimi esperti mondiali di Statement Analysis (tecnica di analisi di interviste ed interrogatori), si occupa soprattutto di morti accidentali e suicidi scambiati per omicidi e di errori giudiziari