di Mariantonietta Losanno
Jacob Harlon è un broker di successo e un padre di famiglia. La sua vita cambia il giorno in cui, dopo una serata gioviale con amici, a causa di qualche bicchiere di troppo, si distrae alla guida causando la morte del suo migliore amico. Tormentato dai sensi di colpa, Jacob finisce in carcere con l’accusa di omicidio colposo. Una volta entrato in quel contesto però, si rende conto di avere solo due possibilità: isolarsi e farsi prendere di mira, o adeguarsi al codice “etico” vigente nel penitenziario, scendere a patti con la morale e sopravvivere.
La sua decisione, se inizialmente appare come una necessità, successivamente diventa una scelta consapevole. La trasformazione di Jacob, ricostruita dal regista con una serie di flashback -che non incidono sulla linearità della storia- è sconcertante: un uomo comune che, non solo decide di sporcarsi le mani, ma di sposare ideali ritenuti prima inammissibili, accettarli come dogmi e condividerli pienamente. È anche il corpo a svolgere un ruolo importante, perché mostra le varie fasi del cambiamento: acquisisce sempre più vigore, cresce, e si riempie di tatuaggi che segnano le varie tappe della sua adesione alle regole della “Fratellanza ariana”. Jacob progressivamente prende coscienza dell’ineluttabilità del suo destino e della sua impossibilità di agire nel bene. All’interno dell’ “animale”, però, l’uomo sopravvive in una versione elementare dedita alla difesa del suo “territorio” e della sua famiglia.
“La liberazione non è libertà; si esce dal carcere, ma non dalla condanna”, ha detto Victor Hugo. È una strada senza uscita, un’adesione ad un codice etico a cui non ci si può sottrarre: ci si può ritrovare ad essere prigionieri anche da uomini liberi. La pellicola di Ric Roman Waugh (regista di “Snitch – L’infiltrato”, “Felon”, “The specialist”), non vuole presentarsi solo come una semplice denuncia: il mix tra la componente drammatica e adrenalinica fanno di quest’opera un prodotto ben strutturato, dove ogni aspetto viene analizzato a dovere, e in cui emerge che non c’è limite alla “fratellanza”, perché vive (e vivrà) la legge del più forte. La violenza non viene mai esasperata: il sistema carcerario viene rappresentato con estremo realismo, senza però scagliarsi apertamente contro. Non c’è nulla di romanzato nelle vicende, dal momento in cui Waugh ha lavorato come volontario nel Dipartimento Penitenziario della California. E non è la violenza ad essere il fulcro principale del film, quanto piuttosto un sistema che ammassa -letteralmente- uomini diversi nello stesso posto, abbandonandoli al loro destino, senza alcun interesse reale per il loro reinserimento nella società. Quello di Jacob è un adattamento forzato, una scelta che costa sacrificio e abnegazione: quanto rimane di “buono” in lui una volta abbandonata la strada dell’ “irreprensibilità”? Il regista realizza un ritratto fedele -quasi una fotografia- di una delle problematiche più attuali del mondo moderno, ovvero l’incapacità da parte delle istituzioni penitenziarie di attuare percorsi formativi personalizzati, che forniscano realmente un’alternativa all’adesione alle regole del “branco”.