– di Mariantonietta Losanno –
“Scappa – Get Out” è diretto da Jordan Peele, attore e sceneggiatore statunitense. La pellicola racchiude molti generi (senza sceglierne nessuno nello specifico): thriller, horror, persino comedy -caratterizzato da un humor demenziale-, arrivando a toccare temi come il razzismo, la schiavitù, la manipolazione dell’uomo. Tutti buoni presupposti, peccato però che non siano stati sviluppati efficacemente.
Chris e Rose sono due giovani fidanzati, ma lei è bianca e lui è nero. Non ci sarebbe bisogno di dirlo, ma purtroppo il film ruota solo e unicamente intorno a quest’idea. La ragazza decide di presentare il suo fidanzato alla famiglia e trascorrere insieme a loro un week end. Durante il viaggio investono e uccidono accidentalmente un cervo: un evento che è una sorta di presagio di qualcosa di negativo che sta per accadere. I genitori di Rose si mostrano ospitali e ben disposti verso Chris, per quanto non riescano a nascondere alcuni atteggiamenti strani che subito lo indispettiscono. La servitù, composta esclusivamente da persone nere, è ancora più ambigua: rispondono in maniera meccanica, come se fossero delle marionette, sembrano completamente disorientati e sotto incantesimo. I sospetti di Chris aumentano ancora di più quando incontra un suo conoscente che risultava scomparso da sei mesi.
Il punto fondamentale che stona nel film è sostanzialmente la trama, che avrebbe voluto sfruttare, in chiave ironica, il tema del razzismo per raccontare qualcosa di molto più complesso ed insidioso. Il punto è non siamo di fronte né ad un thriller né ad un horror, né ad una satira politica; non c’è tensione, e non c’è suspense (a parte nella scelta della musica). La sensazione è quella di voler scappare (non a caso il titolo ci invita a farlo), ma non per la paura o per lo sconvolgimento, ma perché in 103 minuti non succede sostanzialmente nulla. La questione razziale ruota intorno al concetto dei bianchi che sfruttano i neri, che li manipolano, che li riducono simili a zombie o burattini senza più anima per poter meglio usufruire della loro forza fisica, delle loro potenzialità, e persino dei loro organi. L’ipnosi eseguita con una tazzina e un cucchiaino, le operazioni chirurgiche eseguite in maniera “alternativa” non fanno che infastidire e confermare che neanche l’aspetto psicologico è stato affrontato a dovere. Non si spiegano i meccanismi dell’ipnosi, i motivi, le conseguenze, le modalità attraverso le quali si esegue. Forse il regista voleva prendere esempio da “Indovina chi viene a cena?” del 1967 di Stanley Kramer, ma è più credibile la somiglianza a “Indovina chi”, la commedia con Ashton Kutcher. Dunque, se si vuole parlare di razzismo che si parli di razzismo, o se si vuole parlare di psicologia o realizzare un thriller, che lo si faccia. Altrimenti, anche lo spettatore si trova costretto ad accettare l’invito a scappare.