ADESSO DORMI, NONNO

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       –       di Massimo Moscarella     –              nonno nipotina ADESSO DORMI, NONNO

Erano quasi le tre, quando la voce di Emily ruppe il silenzio.

– Mamma, aiuto. Mammina.

Leonardo si precipitò nella cameretta e accese la luce sul comodino.

– Sssh, non è niente, dolcezza. Ci sono qui io. E’ stato solo un brutto sogno.

Emily lo fissò con espressione stupita, poi si guardò intorno, riconobbe le cose a lei familiari, riconobbe suo nonno, trasse un profondo respiro e si asciugò le lacrime.

– Dov’è la mamma?

Leonardo le fece una carezza sulla testolina e sorrise.

– Tesoro, hai dimenticato che è andata a prenderti il fratellino?

Emily finalmente si riscosse del tutto.

– Hai ragione, nonno. La mamma quando è andata in ospedale ha detto che domani mi farà conoscere Marcello. Non me lo ricordavo. Scusami.

Poi, dopo una pausa, chiese se almeno suo padre fosse tornato.

– No. E’ rimasto in ospedale con la mamma. Le tiene compagnia. E pure la nonna è ancora con loro. Mi ha chiamato giusto dieci minuti fa. Il dottore ha detto che ci vorrà ancora un po’. Perciò torna a dormire. Io sono di là in soggiorno, ma se hai bisogno di me, chiamami pure.

– Va bene – sospirò lei.  Poi con una mossa veloce gli schioccò un bacio sulla guancia.

Leonardo spense l’interruttore della lampada e si alzò. Orientandosi con la poca luce che veniva dal corridoio, fece per uscire dalla cameretta, quando Emily lo richiamò indietro.

– Nonno, aspetta.

Tornò a sedersi sul bordo del letto.

– Che cosa c’è, tesoro?

Nonostante la penombra, si accorse dell’imbarazzo disegnato sul volto della bimba.

Era evidente: non voleva rimanere da sola.

Lui non poteva darle torto: otto anni, pensò, sono pochi per affrontare con disinvoltura un’esperienza importante come quella di diventare la sorella di qualcuno che in qualche modo ti ruberà un po’ delle attenzioni di mamma e papà, che fino al giorno prima erano tutte per te.

– Vuoi che ti racconti una fiaba?

La frase gli era sfuggita. Che poteva mai raccontarle? Ai suoi figli, tanti anni prima, lui di fiabe ne aveva raccontate pochine. Cappuccetto rosso, Pollicino, La piccola fiammiferaia. Di neanche una di queste ricordava il finale. Ci aveva pensato sempre sua moglie, a certe cose.

Provò a lasciar cadere l’argomento, ma Emily lo costrinse a restare.

– Dai, nonno, ti prego. Racconta.

Leonardo si grattò la testa con aria incerta, e questo gesto bastò a fargli  tornare alla memoria qualcosa di molto lontano nel tempo.

Adesso una storia da raccontare alla nipotina ce l’aveva.

Emily lo guardava speranzosa.

Lui le rimboccò le coperte, uscì nel corridoio a spegnere la luce, tornò in cameretta, si sedette sul bordo del lettino, si schiarì la voce e nel buio cominciò:

– Dunque … vediamo se me la ricordo bene … c’era una bambina di aspetto molto aggraziato. Si chiamava Carlina. I suoi capelli erano neri, mentre gli occhi erano azzurri e molto belli. Purtroppo, però, quegli occhi non erano espressivi come lo sono i tuoi e quelli della maggior parte delle bambine. Erano belli, ti ripeto, ma poco espressivi. Non lasciavano intuire, insomma, delle grandi emozioni. Non so se riesco a spiegarlo … era come se lei vivesse in un mondo un pochino appartato, rispetto agli altri. Da piccola parlava pochissimo, e quando lo faceva, era solo per dire pappa, bere oppure cacca. Erano quelle semplici parole a far capire che aveva fame, sete o che voleva andare in bagno. Poi, quando aveva sei anni e i suoi genitori la iscrissero alla scuola elementare, la maestra si rese presto conto che la cosa era più seria di quanto i suoi avessero immaginato. Ne parlò con il direttore, e il direttore convocò il papà di Carlina. Gli furono così spiegati i dubbi della maestra, ma lui, invece di portarla da uno specialista, pensò di risolvere il problema togliendola dalla scuola. A distanza di tanti anni, con i progressi che ha fatto la scienza, si capisce che si trattava molto probabilmente di una bimba affetta da un grado lieve di  autismo, ma teniamo presente che tutto ebbe inizio nel 1935. Fu allora che nacque Carlina. Stiamo dunque parlando di ottant’anni fa, e a quei tempi di autismo e problemi comportamentali pochi ci capivano qualcosa. I genitori di Carlina agirono per ignoranza, Emily, e ti è stato spiegato che l’ignoranza è fra i mali peggiori che possono  affliggere l’umanità.

La voce di Emily palesò un po’ d’inquietudine:

– Che vuol dire autismo?  E’ una cosa che fa morire le persone?

Leonardo non era un esperto della materia, e fece del suo meglio per spiegarle certi concetti.

– Ma no. Di autismo non si muore. Non è una vera malattia, per come siamo abituati a considerare le malattie, ma un disturbo dello sviluppo. Però qualche volta può manifestarsi in un modo grave. In quel caso provoca una disabilità importante a chi ne soffre, e anche la famiglia di chi è autistico è coinvolta ma, a differenza di ottant’anni fa, adesso sono previsti degli aiuti da parte delle strutture sanitarie.

– Che successe a Carlina? – Chiese ancora Emily.

– Che vuoi che ti dica? Certe cose nessuno le seppe mai con esattezza.  Però si può facilmente immaginare che la sua non sia stata un’infanzia felice. Suo padre, infatti, ne aveva accolto la nascita come una maledizione, e non la chiamava mai per nome. Per lui Carlina quasi non esisteva. La bella addormentata nel bosco. Così parlava di lei. E’ probabile che sua moglie non la pensasse allo stesso modo, ma era succube del marito; e poi, avevano altri tre figli, dunque Carlina per loro doveva essere considerata alla stregua di un incidente della vita che, se ben controllata, non avrebbe dato neanche troppo fastidio ai fratelli.

Leonardo si rese conto di essersi lasciato andare. Forse certi discorsi erano troppo difficili per una bambina di otto anni.

Notando il silenzio di Emily, avvicinò il viso a quello di lei.

Sembrava che sua nipote si fosse addormentata.

Sarebbe a quel punto stato libero di andarsene, ma sentiva dentro di sé qualcosa che lo spingeva a raccontare il resto di quella storia.

Così, sottovoce continuò:

– Carlina usciva raramente: per i suoi parenti, l’importante era farla vedere poco in giro. Nonostante ciò, a quindici anni lei trovò il modo di dare un profondo dolore a tutti loro: fu messa incinta. Era il 1950, perciò da poco era finita la Seconda guerra mondiale, e l’Italia pagava in modo pesante le conseguenze di quella tragedia. Lo sbandamento era ancora tanto, e non si riuscì a scoprire il nome del porco che sedusse Carlina. Per un po’ si parlò di un vicino di casa che, malgrado avesse moglie e figli, frequentava certi posti pieni di gente viziosa. Ma quando il padre di Carlina lo affrontò a muso duro, quello negò il misfatto e minacciò di querelarlo per calunnia. A quel punto non restava che prendere atto di quello stato di gravidanza  indesiderato. Due erano le soluzioni possibili: fare abortire la ragazza, oppure aspettare la nascita del bimbo e consegnarlo poi all’orfanotrofio. Oggi è legale disconoscere la maternità di un neonato, ma anche a quei tempi, se una ragazza si rifiutava di vedere crescere il proprio figlio, gli concedeva comunque una possibilità affidandolo alle suore, che avrebbero poi badato a compiere quanto necessario, con la speranza che alla fine una coppia di sposi con buone possibilità economiche lo adottasse.

Leonardo fece una pausa, si soffiò silenziosamente il naso e riprese:

– Il padre di Carlina rimaneva dell’idea di farla abortire, ma sua moglie per una volta trovò la forza per opporsi, e la loro figliola portò così a termine la gravidanza. Nacque un maschietto che, a detta dei pochi che lo videro nei primi giorni, era assai carino. Somigliava alla mamma nei lineamenti del viso, regolari e delicati; ma le mani erano piuttosto grosse. Molto probabilmente le aveva ereditate dal padre, di cui mai conobbe il nome. Secondo il modo di ragionare sconsiderato di quella bestia di suo nonno, il bambino fu portato all’orfanotrofio dopo una settimana dalla nascita. Quello snaturato non si prese nemmeno la briga di andare a registrarlo all’anagrafe comunale. A questo pensarono le suore: furono loro a dare un nome al piccolo.

La voce di Leonardo si era fatta incerta. Tacque e rimase per un po’ silenzioso. Pensò che forse poteva chiudere lì la storia.

Si alzò dal letto con incedere stanco e si avviò verso la porta.

Stava per uscire dalla cameretta, quando Emily lo bloccò.

– Come lo chiamarono?

Suo nonno sobbalzò.

– Ma pensa un po’ che furba che sei!  Hai sentito tutto quello che ho detto. Dunque non ti eri addormentata.

Emily si fece una risata.

– Eh già. Mi piaceva sentirti raccontare rimanendo ad occhi chiusi.

Poi gli fece una confidenza:

– Io lo so come nascono i bambini, nonno. Sono grande, ormai. Un uomo e una donna si addormentano insieme per qualche notte di fila, e dopo nove mesi arriva un figlio. Però adesso ti prego, dimmi come finisce la storia.

– Tu sei proprio una birbante! – disse lui in tono affettuoso.

Lei lo incalzò:

– Su, dai, nonno. Come si chiamava il figlio di Carlina?

– Questo non lo so. – Rispose lui con aria pensierosa. – Credo che per i primi due o tre anni non lo sapesse neanche lui. Per Carlina quel bambino era Piperino. Così lo chiamava sempre lei. “Dov’è il mio Piperino?” chiedeva con voce disperata, dopo che glielo portarono via. Quei giorni per Carlina furono angosciosi. Non voleva rinunciare all’oggetto del suo amore così forte e disgraziato. Poi qualcuno, mosso a pietà, o magari solo per fare un dispetto ai suoi parenti, le raccontò che il bimbo si trovava nel tale istituto. Carlina aveva avuto giusto il tempo di dargli le prime poppate, ma in quei pochi giorni fra lei e suo figlio si era consolidato un rapporto di tale forza che avrebbe sfidato ogni decisione  perversa che avrebbero cercato di imporle.

Nella semioscurità della cameretta si era instaurato un rapporto di complicità completa fra nonno e nipote. Emily dovette percepirlo, e con voce piena di emozione lo incalzò:

– E a quel punto che cosa fece Carlina? Andò a riprendersi Piperino?

– Ci puoi giurare che lo fece, bambina mia. Certo che lo fece!

– E come ci riuscì?  Non c’erano le guardie, in quell’istituto?

– No, le guardie no. C’erano le suore; e quelle, volendo, potevano diventare anche peggio dei gendarmi. Ma Carlina non si scoraggiò. Così una notte, verosimilmente aiutata da un’anima buona di cui nessuno conobbe mai l’identità, andò lì, scavalcò la cancellata alta due metri e penetrò nella camerata dove dormivano i bambini più piccoli. La sua impresa ebbe del miracoloso, perché nessuno si accorse di lei. Alle sette del mattino una suora la trovò seduta sul pavimento. Teneva stretto fra le braccia il suo Piperino, mentre lo allattava. Lui succhiava quel latte che per qualche giorno era stato sostituito da un alimento artificiale, ma che evidentemente ancora non aveva scordato. La monaca levò un grido, ma si guardò bene dall’avvicinarsi a Carlina. Temeva da lei chissà cosa, quella stupidotta!

– Perché dici così, nonno?  – domandò Emily.

Lui sorrise.

– Dico così perché quella suorina si preoccupava per un pericolo che in realtà non c’era. Carlina non era una pazza scatenata. Era solo una ragazza autistica. E una persona affetta, come Carlina, da una forma lieve di autismo, non è capace di fare del male. Comunque, in pochi minuti arrivò una dozzina di monache e la ragazza fu circondata. Qui la storia diventa abbastanza confusa. Una inserviente di mezza età raccontò al giudice (che qualche giorno dopo doveva decidere il provvedimento da adottare), che Carlina mise a quel punto le dita di entrambe le mani intorno al collo del bambino e lo sollevò di qualche centimetro sopra la sua testa, come se si trattasse di un bambolotto da esporre. Di una cosa, però, l’attenta testimone si disse certa: Carlina non stringeva. Quel gesto le servì per impaurire le suore che volevano sottrarle il bambino. Insomma, l’inserviente fece capire al magistrato che l’intenzione della ragazza era solo di scoraggiare qualsiasi tentativo di portarle via il figlio. Le monache, terrorizzate, allargarono il cerchio intorno a lei; Carlina subito ne approfittò per prendere la via delle scale. Arrivata al secondo piano, si avvicinò a una finestra, la aprì e si sedette a cavalcioni del davanzale. Giratasi verso le suore che le erano corse dietro, le ammonì con voce dura: “Se vi avvicinate, mi butto giù. E con me porto il bambino.” La testimone riferì che il tono era calmo. La madre superiora aveva già dato disposizioni perché si telefonasse alla questura, e in pochi minuti due poliziotti giunsero sul posto. Però neanche la loro presenza scoraggiò Carlina, che con calma svelò le sue effettive intenzioni. Il suo desiderio non era di uscire dall’orfanotrofio, perché sapeva che a casa non poteva tornare. Suo padre, infatti, avrebbe trovato il modo per portarle via nuovamente il figlio. Dunque non le restava che vivere nell’istituto delle suore, in modo da crescere il suo Piperino in pace. Fu allora che si compì un secondo miracolo: la madre superiora, che fino a quel momento aveva mostrato un cipiglio da megera, s’intenerì. Convinse i due poliziotti a farsi da parte, e poi, avvicinatasi a Carlina, le parlò come nessuno aveva fatto mai prima d’allora. La invitò a comportarsi come la madre della bibbia che, al cospetto di re Salomone, si disse pronta a rinunciare a tenere per sé il figlio, purché il bambino continuasse a vivere.

– Io la conosco quella storia, nonno –  disse Emily in un tono che esprimeva orgoglio ma anche una gran voglia di dormire.

Leonardo continuò:

– La ragazza stese le braccia e consegnò Piperino alla suora. Mentre lo faceva, disse che mai e poi mai lo avrebbe trascinato con sé nella caduta. Anche quella era stata una finzione. La testimonianza della madre superiora, e quella delle altre suore, furono sufficienti perché il giudice si convincesse che Carlina non meritasse di vivere lontana dalla sua creatura. Se qualcuno avesse provato a separare quelle due anime pure, si sarebbe macchiato di sacrilegio. Così disse il giudice. Parlò di sacrilegio. Fu perciò che il bimbo restò in quell’istituto fino al compimento della maggiore età, amato e coccolato da un piccolo esercito di suore, che allestirono una stanzetta per Carlina e il suo Piperino.

Ormai Emily dormiva. Suo nonno le fece una carezza. Anche se lei non ascoltava più, volle finire la storia.

– Una vecchia canzone di Fabrizio De Andrè dice che, come tutte le più belle cose, alcune donne vivono solo un giorno come le rose.  Così fu per Carlina, che morì quando il suo Piperino aveva nove anni. Appena uno in più degli anni che hai tu, Emily. Fu un brutto male, come si diceva a quei tempi, a portarsela via. Lui diventò grande; terminò gli studi, iniziò a lavorare; a ventitré anni conobbe la donna della sua vita, la sposò ed ebbero due figli. Questi a loro volta fecero dei figli, e perciò Piperino conobbe anche la gioia di essere nonno. Però sua madre, quella strana madre che parlava poco e aveva due occhi che sembravano prendere vita solo quando guardavano lui, non la dimenticò. Come non dimenticò le canzonette senza parole che lei gli faceva ascoltare. Più che cantarle, lei le musicava. Il suono usciva, lieve, dalla piccola fessura che lei formava avvicinando tra loro le labbra. Piperino ebbe dalla vita un bel po’ di soddisfazioni e parecchi motivi per essere felice, ma una cosa gli mancò sempre. Lo vuoi sapere di che cosa si tratta?

La bimba non rispose.  Suo nonno sorrise e volle dirglielo lo stesso.

– Devi sapere, tesoro mio, che quando Piperino andava a letto, sua madre gli accarezzava la parte posteriore della testolina. Lui prendeva sonno al suono di quel “frot … frot … frot” che le dita sottili di lei gli facevano sul cuoio capelluto. Quel rituale andò avanti per nove anni, fino a quando lei non morì. Si ripeté sempre uguale, eppure sempre nuovo, tutte le sere, durante l’intera infanzia di Piperino. Dopo che Carlina volò in cielo, nessuno gli grattò più la testa, ma il ricordo del frot … frot … frot lo accompagnò per il resto della sua vita.

Leonardo si trovava adesso in uno stato di rapimento, quando un suono improvviso lo fece sussultare. Era il suo cellulare. Procedendo a tentoni nella semioscurità della casa, ciabattò fino in soggiorno. Trovò il telefonino che, imperterrito, continuava a suonare. Schiacciò il tasto di ricezione e rispose.

Parlò con sua moglie e si scambiarono gli auguri.

Sì. Il parto era andato benissimo. La mammina era stata brava. Il travaglio era durato meno del previsto. Tutto era ok, insomma. Il bimbo era sano. Somigliava a qualcuno? Boh? Si sa che la maggior parte dei neonati i primi due o tre giorni somigliano a tutti e a nessuno.

Poi si fece passare suo genero. Auguri vivissimi anche a lui. Un paio di battute scherzose di circostanza.

Potenza dei telefoni cellulari, ebbe addirittura modo di salutare sua figlia, intanto che le infermiere della sala parto la ripulivano.

Sì, gioia mia, stai tranquilla. Emily è di là che dorme. Ok. La lascio dormire. Va bene, va bene, appena si sveglia, le do’ un bacio da parte tua. Adesso però riposati un po’, figlia mia. Emily ed io verremo a trovarti in ospedale fra qualche ora. Ciao. Ciao. Dai per me un  bacio al piccolino.

Dopo la telefonata, sempre muovendosi nella semioscurità tornò in cameretta per controllare che Emily dormisse.

La luce della lampada sul comodino di sua nipote lo investì come un faro abbagliante.

– Perché hai gli occhi lucidi, nonno? Hai pianto?

La vocina di Emily era carica d’inquietudine.

– Ma no, ma no, sciocchina. Vuoi che pianga alla mia età? E poi, perché dovrei? E’ nato il tuo fratellino. E’ nato Marcello. Sta benone. Anche la mamma sta bene. Forse ho gli occhi lucidi perché mi sono commosso, ma sono felice, tesoro mio. Più tardi andremo a trovarli in ospedale. Ora  però spegni la luce e dormi ancora un poco.

Lei lo guardò con espressione seria.

– Perché non mi dici la verità, nonno? Credi che sia troppo piccola per comprendere certe cose?

Lui capì una cosa per l’altra e volle tranquillizzarla:

– La mamma sta bene sul serio, Emily. Fra poco il tuo papà e la nonna tornano anche a casa.

Sua nipote gli rivolse un sorrisino ironico.

– Non ero preoccupata per la mamma.

Poi si girò dall’altra parte.

Mentre era distesa sul fianco, senza guardarlo gli chiese:

– Ti va di dormire un poco vicino a me, nonno?

– Ma certamente, tesoro. – Si affrettò a rispondere – Ecco, guarda, mi stendo anch’io e provo a chiudere gli occhi per una mezz’oretta.

Spensero la luce.

Passarono due o tre minuti. Emily taceva. Lui poteva sentirne il respiro profondo. Pensò che stavolta si fosse addormentata sul serio e decise di muoversi il meno possibile per non disturbarla, ma Emily, sempre rimanendo girata in direzione della parete, lo sorprese di nuovo.

– Nonno, perché non me lo vuoi dire che il vero nome di Piperino era Leonardo? Forse ti vergogni di ammettere che Piperino sei tu? Carlina era la tua mamma, non è vero?

Un vortice di emozioni travolse Leonardo. Come un bambino non riuscì più a contenersi e cominciò a piangere. Non aveva il coraggio di girarsi a guardare la sua nipotina.

Lei capì il suo imbarazzo e non disse più niente.

Leonardo stava pensando a quel frot … frot … frot che non sentiva da sessant’anni o giù di lì.

Non ne aveva parlato mai con nessuno, nemmeno con sua moglie.

Si era illuso di non averci neanche più pensato, fino a quando, pochi minuti prima, il rapporto di confidenza che aveva instaurato con sua nipote non lo aveva indotto ad ammettere con se stesso che era tutto vero: il tocco lieve delle dita di sua madre dietro la testa gli era mancato. Gli sarebbe tanto piaciuto risentirlo almeno una volta. Ma ormai i giochi erano fatti. Carlina era volata via tanto tempo prima, e lui era adesso un vecchietto, e per questo non poteva lasciarsi andare al sentimentalismo.

Provò a scuotersi, ma proprio non ci riusciva. Le lacrime scendevano a bagnargli le gote e lui, silenzioso, le inghiottiva a una a una, stando ben attento a non fare rumore.

Fu allora che provò le stesse sensazioni di una volta.

Qualcuno, alle sue spalle, gli faceva sentire quel tocco lieve dietro la testa.

Frot … frot … frot…

Capì che era la mano dalle dita sottili di Emily.

Dita uguali a quelle di Carlina.

Carlina…sua madre.

Poi sentì la voce.

Era quella della mamma?

Ma no. Era Emily che parlava.

Emily: la sua nipotina.

Ma la sensazione piacevole che gli diede, fu la stessa.

– Adesso dormi un poco, nonno.

  Frot … frot … frot…