– Domande di Francesca Nardi – Il silenzio che ha accompagnato l’uscita di scena del dottor Scorciarini Coppola qualche anno fa, era sincopato dai sospiri di sollievo di chi quella decisione aveva favorito, preteso, provocato…Oggi c’è uno strano silenzio, agli ascoltatori attenti, appare privo di sincopi, gelido come quel rivolo di sudore che scivola lento lungo il dorso…un silenzio duro come una cortina di ferro che qualcuno ha pensato essere inossidabile, invalicabile…eterna
2) Quali sono gli “errori” di metodo degli allevatori e quali soprattutto gli “errori volontari”, che producono un vantaggio a discapito della qualità del prodotto e del benessere animale?
“Il comparto zootecnico che conosco meglio è, come ho detto, quello bufalino. Conosco anche il resto del mondo zootecnico ma maggiormente a quello bufalino mi riferirò. Parlando in genere, posso affermare che in zootecnia e in agricoltura di solito ci si occupa dei guai solo quando questi sono incombenti e irrisolvibili. Oggi, per esempio, con la pandemia in atto e le conseguenze che ne derivano a chi produce derrate alimentari di origine animale, una figura professionale come la mia, potrebbe persino trovare un vasto uditorio che la stia ad ascoltare con benevolenza. Fra qualche mese, virus sconfitto, al convegno verrebbero in pochi, una volta ottenuta qualche prebenda economica dallo Stato, e sarebbe serio il rischio di passare pure per menagrami o essere appellati, con le parole che il Dottor Pasquano rivolge al Commissario Montalbano. L’atmosfera generale che si respira è questa, lontanissima da quella di altri comparti produttivi. Non si fa programmazione, non si guarda oltre il proprio naso, ci si accontenta e ci si sente forti quando si crede che le cose vadano bene. Oltre a ciò aggiungerei la mancanza di spirito associazionistico e l’individualismo spinto. Errori comuni a tutti i comparti zootecnici. Venendo a quello bufalino, si commettono altri errori ancora ed è stato questo il mio impegno di tanti anni fa, ricordato nelle precedenti puntate dell’intervista, trovare i correttivi ma per prima cosa spostai parte della mia attenzione allo studio e alla osservazione dei comportamenti umani. Una indagine antropologica che portai silenziosamente avanti per capire che gli allevatori, spesso diversi se non opposti riguardo gli aspetti culturali ed esteriori, finivano per essere, tranne pochi casi, molto simili fra loro. A tal proposito, partirei proprio dal fatto che, di fronte a un problema, anziché cambiare sistema, nel comparto bufalino si cerca sempre di trovare la scappatoia, una via traversa per eludere quella maestra e non credo che le cose siano cambiate. Ciò porta inevitabilmente a non risolvere mai nulla, ma solo a spostare un problema da una parte a un’altra e questo ha reso alla fine, il comparto bufalino italiano unico nello scenario mondiale, in quanto non c’è diversificazione. Si pratica una zootecnia che non può reggere in quanto opera in una doppia monocoltura, quello della materia prima cioè il latte e quella industriale della mozzarella, con tutti i rischi e la rinuncia a un maggiore fatturato e alla mancata occupazione che ne conseguono. Provo a fare degli esempi: 1) Troppi cercano di aprire il loro caseificio perché non viene pagato bene il latte. Si è così arrivati a una parcellizzazione di caseifici spesso in difficoltà a reggere la competizione commerciale e scorretti nei comportamenti rispetto ad altri per sopravvivere. 2) Non si allevano i vitelli maschi per produrre carne, ritenendo erroneamente che non convenga e tanto, poi, si guadagna bene col latte, insomma ci si accontenta. Questo il pensiero dominante. Dopodiché questi animali li si dovrà pur eliminare e, poi, come lo si farà, come li si smaltirà? 3) Si uccidono maschi che da adulti potrebbero essere ottimi riproduttori ma questo, a pochi giorni di vita, spesso non lo si può sapere. Viene così meno la genetica su linea maschile che è quella più importante e si opera in consanguineità perché pochi maschi in giro, vuol dire poco rinnovo genetico per migliorare la produzione del latte cui tanto, almeno a parole, si dice di tenere. 4) Non produrre carne, vuol dire mantenere le femmine per troppi anni in mungitura con tutte le conseguenze legate alle minori quantità di prodotto che si ricavano, anno dopo anno, per via della vecchiaia e alle maggiori spese sanitarie da sostenere. 5) Non produrre carne, significa anche non sapere cosa farne dei capi positivi alla brucellosi, che nel passato remoto, venivano con varie complicità nascosti e il problema si è così allargato ed è degenerato. Capi che hanno, pensi un po’, un marchio di infamia per quanto concerne il latte ma non per la carne, esclusi gli organi da eliminare al momento della macellazione. Non produrre carne, ha significato non aver mai acceso l’inceneritore naturale a costo zero della brucellosi. 6) Non aver risolto il problema ha fatto alla fine pensare pure al vaccino. Non so se lo si stia ancora utilizzando ma, a mio giudizio, è un altro grave errore che è stato commesso tant’è, mi dicono, non ha eradicato la malattia. Inoltre, ha creato un pasticcio, una confusione sierologica che oggi molti, con quello che sta accadendo in merito al famoso virus, sono in grado di comprendere. Non è dato più sapere, infatti, se un animale risulti positivo alla malattia perché è malato, perché lo è stato, perché sia stato legalmente vaccinato o perché sia stato vaccinato nell’altro modo. Un argomento, quello del vaccino, sul quale magari, se vuole, ritorneremo avendo altro ancora da dire 7) Si produce da sempre solo mozzarella e poi la ricotta che è un derivato dal siero residuo della caseificazione, quando sarebbe benissimo possibile produrre nei periodi dell’anno, quelli in cui c’è meno consumo di mozzarella, altri formaggi sempre di alta gamma e ottima redditività da lanciare sul mercato che gli amici e collaboratori Merola e Consalvo già citati, e non solo loro, all’epoca realizzarono, inascoltati e snobbati, unitamente ai vari salumi. Formaggi stagionati, quindi, non penalizzati come lo è la mozzarella da un tempo di vendita e consumo troppo rapidi. Sarebbe aumentato, di conseguenza, il numero dei capi in allevamento, quello degli addetti e il fatturato per la produzione estiva. Niente da fare, nessun ascolto. C’era latte in eccedenza in inverno, mentre mancava in estate, per cui ne hanno fatta un’altra di trovata. Posto che una gravidanza dura, giorno più giorno meno, mediamente 10 mesi, sono stati spostati i parti in primavera, fecondando artificialmente gli animali in periodi dell’anno, quelli con meno luce, in cui gli stessi poco o nulla si accoppierebbero, in modo di avere appunto il parto e la maggior quota di latte in primavera e estate”.