Definiamo l’accettazione come “l’assunzione di consapevolezza che un certo scopo sia definitivamente compromesso”: accettare serve a far sì che non si sperperino risorse in uno scopo irraggiungibile, ottimizzando l’utilizzo del tempo per conquistare obiettivi possibili. È, dunque, un meccanismo utile per un razionale utilizzo dei mezzi a nostra disposizione. È possibile mettere in pratica questo ragionamento anche di fronte ad una sofferenza? Se tutto fosse così facilmente attuabile si vivrebbe indubbiamente in maniera più leggera, ma probabilmente senza conoscersi a fondo. Per far sì che si arrivi ad un’accettazione consapevole e matura bisogna superare alcune fasi necessarie -vissute in maniera soggettiva, non esistono schemi o regole da seguire- che comprendono, nella maggior parte dei casi: negazione, rabbia, rifiuto, solitudine, depressione. “La stanza di Marvin” non vuole essere un film strappalacrime, non vuole ostentare, non ha bisogno di patetismi: è un’aggregazione di dolori e sofferenze, eppure oltre tutto il male che si prova c’è qualcosa da scoprire e da imparare.
Il film, diretto dall’esordiente Jerry Zacks e tratto dall’opera teatrale di Scott McPherson, presenta un cast d’eccezione: Diane Keaton (che per questo ruolo ricevette la nomination agli Oscar), Leonardo Di Caprio, Meryl Streep e Robert De Niro. Al centro c’è Bessie che si prende cura del padre malato (il Marvin del titolo) e della zia Ruth. Quando però le viene diagnosticata la leucemia, Bessie è costretta a riallacciare (dopo vent’anni) i rapporti con la sorella Lee, che ha due figli, uno dei quali, Hank, in un ospedale psichiatrico (in realtà, non è realmente disturbato, è piuttosto un ribelle incattivito in cerca di attenzioni). La pellicola non fa sconti e mostra il dramma in modo diretto e profondo. Si potrebbe criticare l’eccessività di situazioni tragiche all’interno della storia, ma quello che contraddistingue il film è proprio la sua aderenza alla realtà: le situazioni presentate ne “La stanza di Marvin” sono facilmente riscontrabili nella vita di tante persone. Bisogna solo scegliere come approcciare al dolore.
Il film presenta al tempo stesso momenti di eccessivo cinismo, in cui sembra che Lee non voglia aiutare né il figlio ad uscire dall’ospedale psichiatrico e a ristabilire un equilibrio, né la sorella per il trapianto di midollo osseo; a momenti di “comicità” esasperata; ad altri ancora di irrefrenabile sconforto: tutti gli atteggiamenti sono giusti, perché hanno un’importanza differente. Reagire con distacco -che, portato all’eccesso, può sfociare anche nel cinismo- consente di maturare uno sguardo lucido e distaccato, che aiuta ad essere pratici e reattivi; al tempo stesso sdrammatizzare -non negando il problema, ma esorcizzando la paura- può servire per stemperare la tensione per rendere la gestione della situazione meno pesante; infine, gli sfoghi sono assolutamente necessari e legittimi, perché lasciarsi andare alle emozioni negative è utile per analizzare se stessi e il dolore che si sta affrontando.
Gli spunti di riflessione sono tantissimi: il film racconta una riconciliazione familiare difficile, in cui i rimorsi e la rabbia repressa sembrano essere insormontabili. Eppure, una soluzione, anche nel buio più totale, c’è. Il finale del film è volutamente aperto: non si sa Bessie troverà effettivamente un donatore, o se morirà, ma non è questo lo snodo più importante della storia.
La svolta è il trionfo della famiglia, del bene disinteressato, della consolazione nel non sentirsi soli. “La stanza di Marvin” insegna a perdonare e a concedersi altre possibilità (di migliorare e di sbagliare), e di concederle anche agli altri. Accettare diventa allora sinonimo di “lasciare spazio”: ai ricordi dolorosi, agli impulsi, alle emozioni, alle esperienze. “Per evolversi la vita deve fare male. Il dolore è una terraferma. […] Se togliamo il dolore, togliamo il tavolo sul quale mangiamo ogni giorno”, diceva Alda Merini: proviamo, dunque, ad approcciare al dolore da un’altra prospettiva, tenendo sempre a mente che è una costante della vita, ma che abbiamo il potere di decidere tra farci sopraffare o reagire con intelligenza.
Mariantonietta Losanno