LA MEMORIA

0

    –     di Michele Falcone     –          

Vi sono ricorrenze nel corso di ogni anno che dovrebbero indurre tutti ad una seria, profonda meditazione per trarre dagli avvenimenti della storia, spesso. troppo spesso, scritta col sangue degli innocenti, esempi e insegnamenti utili per migliorare il presente, ancor più il futuro, per spingere i nostri figli, i giovani tutti a inseguire il loro arcobaleno dei sogni e delle speranze con fiducia, con serenità, con la loro stessa baldanza giovanile.

E il giorno della “Memoria” è uno di questi momenti, forse il più importante, perché ci fa comprendere come la storia dell’intera umanità si deteriora fino ad abbrutirsi nel peggiore dei significati, quando la ragione perde la sua capacità di discernimento tra il Bene e il Male e diventa incapace a vagliare l’ordine naturale delle cose, rette, tutte, indistintamente, da una Mente Superiore che è quella divina, che si mostra come nell’universo di una goccia d’acqua, nel tremulo respiro di un rugiadoso petalo di rosa, cosi negli infiniti spazi siderali.

Gli occhi perdono la loro naturale brillantezza, l’anima è avvolta da una fitta, tetra caligine, il cuore diventa un semplice muscolo corporeo, la mente si perde nella rincorsa di fantasmi deformi come ombre stagliate su rocce taglienti e acuminate, nei prati gli alberi piegano le fronde ai tempestosi venti, le onde marine si rincorrono con passi da giganti per infrangersi sugli immoti scogli, il cielo si rabbuia del suo splendore e nella volta celeste si stempera un infinito pianto stellare, mentre un profondo silenzio avvolge le lontane casupole fumanti echeggianti nella memoria delle grida di un tempo festanti.

Sotto le macerie nomi corrosi dal tempo, nella mente dei sopravvissuti volti deformati, occhi sbarrati dal terrore, voci supplichevoli inascoltate, corpi piegati sotto il grave peso dell’indifferenza nel procedere lento e forzato, stanco, sfinito, mortale.

Le mani tremanti. rinsecchite come sottili rami invernali, congiunte in preghiera, recitata con voci deboli. flebili, sommesse, che terminava con la misteriosa invocazione “Padre mio perché m ‘abbandoni!”

Ma l’umanità disumanizzata e tutta lì, in un bimbo, tutto solo. con il capo coperto da un berretto di lana, con scarpe più grandi dei piedi e con un pantalone a mena gamba, con gli occhi fissi in un sole ancora biancastro e con il volto rigato da piccole, silenziose lacrime, poi, spinto a percorrere una strada stretta, fangosa, con un sorriso innocente si porta a raggiungere altri bimbi, la, all’orizzonte, dove il mare si tocca con il cielo.

O fanciullo senza nome e senza fiabe, la tua voglia di vivere sarà appieno compresa solo se l’uomo riuscirà a riconquistare la perduta innocenza dell’infanzia, pur se non so se eri ebreo o un negro, o se avevi gli occhi a mandorla o la pelle gialla o rossa, se eri uno dei diecimila morti nelle foibe carsiche o nei campi di sterminio nazisti, ma so che eri un bambino e che hai lasciato agli “uomini grandi” e alla loro follia il tuo cuore che apristi con la tua piccola mano in questa poesia:

“Su un acceso rosso tramonto,
sotto gl’ippocastani fioriti,
sul piazzale giallo di sabbia,
ieri, oggi, i giorni sono tutti uguali,
belli come gli alberi fioriti.
E’ il mondo che sorride
e io vorrei volare. Ma dove?
Un filo spinato impedisce
che qui dentro sboccino fiori.
Non posso volare.
Non voglio morire.”