Dopo il debutto con “La ragazza nella nebbia”, thriller ben strutturato, intrigante e non eccessivamente pretenzioso, Donato Carrisi torna dietro la macchina da presa con “L’uomo del labirinto”, tratto dall’omonimo romanzo best seller. Samantha Andretti è stata rapita all’età di tredici anni mentre si recava a scuola. Dopo quindici anni si ritrova in un letto d’ospedale, cosciente, ma ancora sotto shock; ad assisterla c’è un profiler, il Dottor Green (Dustin Hoffman), con il compito di aiutarla a ritrovare la memoria così da individuare e catturare chi l’ha tenuta prigioniera in quello che Samantha definisce il labirinto. L’investigatore Bruno Genko (Toni Servillo), intanto, sentendosi in colpa per non aver accettato al tempo l’incarico da parte dei genitori della ragazza di ritrovarla, tenta di ricostruire gli eventi per risalire al suo sequestratore.
Anche in questo caso, così come ne “La ragazza nella nebbia” (in cui c’erano Toni Servillo, Jean Reno ed Alessio Boni), Carrisi si è avvalso di un cast d’eccezione: questo, sicuramente, ha contribuito a rendere la sua regia più sicura e disinvolta. Lo scrittore di Martina Franca (TA), però, sceglie le vie più comode nella realizzazione del suo film. Spieghiamo il perché: innanzitutto, come abbiamo detto, si serve di attori di un certo calibro che aiutano a rendere la sua regia più sicura; attinge -ancora una volta- apertamente da tutto il cinema del genere (ad esempio, il mostro che ha rapito Samantha è un coniglio, che è un chiaro riferimento a “Donnie Darko”); infine, sceglie di suggerire delle ipotesi (il verbo non è casuale, il primo romanzo di Carrisi è, appunto, “Il suggeritore”) senza mai prendere una posizione lineare. Donato Carrisi cerca di manipolare il suo pubblico, invitandolo ad accettare il suo gioco criptico, sulla scia di tanti altri scrittori e registi (come esempi nella prima categoria possiamo citare Jo Nesbø, Michael Connelly, Jeffery Deaver, Stieg Larsson; nella seconda David Lynch, Alred Hitchcock, David Fincher, Dario Argento). “Io vi ho promesso un dedalo di strade possibili, vi ho promesso una sfida, non ho barato. È un labirinto, vi ho detto. Ora sta a voi trovare l’uscita, da soli. […] Io voglio che il pubblico sia indipendente da me, che sia migliore di me. […] La verità è che vi è piaciuto perdervi, per questo siete ancora lì”, afferma Carrisi. Un modo intrigante di invitare lo spettatore a lasciarsi andare senza avere punti fermi, o, al contrario, una scelta di non esporsi. Sta al pubblico decidere, dunque.
Come ne “La ragazza nella nebbia” la storia è ben costruita, ma è troppo incentrata a sbalordire lo spettatore: il risultato è un senso di alienazione ed inquietudine che può affascinare ma anche confondere. L’effetto straniante è legittimo e consono alla storia, ma mette a dura prova gli amanti del genere, abituati a sciogliere enigmi ben più complessi. Carrisi costruisce un contesto che si adatta alla narrazione: una città che potrebbe trovarsi ovunque, con strade desolate e personaggi misteriosi. Il problema è che l’ambientazione è tutt’altro che realistica -anzi, sfiora il surreale- tra città, campagna e paesaggi innevati. Anche questo concorre a creare un senso di caos che, dopo più di centoventi minuti, tende a disturbare piuttosto che ad affascinare.Con “L’uomo del labirinto” Carrisi voleva creare un horror di altri tempi, prendendo spunto dai classici del genere, ma distaccandosene con elementi di originalità. Un progetto azzardato e, per questo, non pienamente riuscito. Ultima nota: analizzare le falle de “L’uomo del labirinto” non vuol dire denigrare il cinema italiano, esaltando automaticamente altri autori. Ci sono stati adattamenti cinematografici non italiani (uno dei quali sicuramente “L’uomo di neve”, tratto dall’omonimo romanzo di Jo Nesbø, che non ha soddisfatto le aspettative dei lettori) che si sono rivelati ugualmente non soddisfacenti. Affermare che la pellicola di Carrisi, nonostante gli aspetti che abbiamo evidenziato, sia un prodotto di livello solo perché italiano e dunque con uno standard più basso non paragonabile ad altre opere, sarebbe tanto spregevole quanto non obiettivo.
Mariantonietta Losanno