– di Elvio Accardo –
La porta si aprì, e l’aria fresca del mattino umida di fiume e profumata di aia, entrò allegra spazzando gli odori rancidi e affumicati della notte, che ristagnavano in quella vecchia cucina che molti anni prima era stata dipinta di ocra chiaro.
Lola andò veloce verso la pergola a fare pipì mentre Olindo prima di attraversare l’aia rinchiuse la porta con la chiave raggiungendo il suo osservatorio sull’argine del colle, nel boschetto di lecci. Da quella postazione poteva vedere la masseria di zì Paruccio con tutto il terreno fino all’ansa del fiume che compariva e scompariva nelle rive lussureggianti di pioppi e sottobosco che facevano da confine con l’argine della selva di castagni che si perdeva per l’alto costone fitta di sfumature rossicce, giallo dorato. Ottobre, ultimo sole, presto le piogge avrebbero reso impossibile l’aratura dei campi, e per la semina rimanevano al massimo 3 settimane; la gramigna aveva invaso i campi con le talpe e ogni sorta di erbaccia aveva prosperato su quei terreni che per la prima volta dopo oltre un secolo e mezzo, rimanevano abbandonati a sé stessi, senza aratura e senza semina. Questa vista per Olindo era un’allucinazione, un incubo che torturava la sua più profonda natura di contadino, straziava la sua carne fin dentro al cuore, come un rovente cuneo rigirato continuamente nel cervello, tanto era insopportabile la vista dei suoi campi pietrificati. Non aveva mai pensato a questa possibilità, questa impossibile eventualità che sconvolgeva i ritmi della sua esistenza. Ed era lì, nascosto in quel boschetto in compagnia della sua solitudine e di quel che restava di Lola, ad osservare zì Paruccio tutti i giorni, sin dal mese di maggio, sin da quando il grano maturo e falciato era stato ammucchiato in covoni per essere poi trasportato alla trebbiatura.
Zì Paruccio l’aveva fatto, con il trattore e il carro, e aveva trasportato il grano falciato alla trebbia, e raccolto la paglia con alti cumoli color oro che brillavano ridenti nel sole d’estate. Aveva poi arato i suoi campi in agosto, nell’ardore dei gas di scappamento del trattore che lavorava lento dall’alba al tramonto, trasformando quei campi con stoppie arse in distese di zolle scure, che dall’alto apparivano come mantelli pettinati. Lui, sempre lì, nei dolorosi silenzi dell’estate, senza mai avere o dare, segno della sua presenza. Quel mattino zì Paruccio nel mettere i piedi per terra e nell’alzarsi dal letto, aveva dovuto reggersi al vecchio e alto comodino scolpito, facendo cadere gli occhiali, per il tremendo turbinio che avvitava la sua testa rendendolo sgomento in preda alla nausea. Si coprì gli occhi con il palmo calloso e si risedette sul letto pensando che di lì a poco l’armadio, la finestra e la porta si sarebbero fermati, restituendogli l’equilibrio, ma nulla si fermò, tutto continuava a girare vorticosamente e un tremendo malessere s’impadronì delle sue membra, una stanchezza mai sentita; addirittura ebbe la certezza che il suo corpo fosse paralizzato poiché la mano dagli occhi piombò sulla coperta mentre cadeva riverso sul letto, le sue gambe poi non ressero il suo peso e scivolò per terra battendo la fronte sul grappolo d’uva scolpito nel rovere dello sportello del vecchio comodino., Rimase così, riverso senza sensi per quasi un’ora, ma aprendo gli occhi non ricordò mai di quella assenza, si accorse invece del sangue che gli si era rappreso sulla guancia e sgorgando dallo zigomo ferito gli aveva inzuppato il collo della maglia e del pigiama. Mosse il braccio destro senza difficoltà portandoselo al viso e toccando lo zigomo tumefatto, si aggrappò al letto, cominciando ad alzarsi, a fatica però, un torpore mai sentito prima gli aveva attraversato l’altro braccio e una gamba, ma tutto si era fermato intorno a lui, e questo lo fece sentire meglio, lo sforzo valse a capire subito quali parti del suo vecchio corpo si muovevano ancora bene. Si fermò sul letto ancora un po’ e provò a muovere le gambe, abili ancora, ma una più dell’altra, come le braccia, e capì in quel momento che doveva chiedere aiuto. Pensò al telefono, un dottore doveva essere chiamato subito, soccorrerlo, portarlo all’ospedale e chiamare i figli, che sarebbero accorsi per assisterlo; pensò ad Armando, il figlio che lavorava alle Poste di Asti, che aveva ancora venti giorni di ferie da utilizzare e che avrebbe passato volentieri il Natale da lui, così era scritto nell’ultima lettera che aveva ricevuto da Asti; poteva anticiparsi un po’ e rimanere alla “stipa” fino alla semina; però doveva telefonare, l’unico telefono, l’aveva Olindo.
Olindo aveva installato il telefono a casa sua poiché Santina lo aveva sempre chiesto con insistenza da tempo. Santina aveva desiderato il telefono, per tanti motivi, primo tra tutti l’isolamento della “stipa” rispetto al paese, vedeva il lato utile con chiarezza, cosa che Olindo si ostinava a non vedere, adducendo scuse e pretesti come quello della difficoltà di portare la linea fino alla sua masseria. In realtà era proprio la sua masseria che trovandosi a monte, si trovava anche a ridosso della strada provinciale lungo la quale correva la linea. Rimaneva invece la casa di zì Paruccio con difficoltà di percorso, visto che la linea per giungere dalla provinciale alla sua masseria doveva attraversare il fiume a valle. Questa fu la ragione per cui il telefono fu installato da Olindo e non da zì Paruccio, tanto le telefonate da Pescara o da Asti, dai suoi figli le riceveva a casa di Olindo, e Santina invitava Rosa a venire ogni domenica a ritorno della messa in paese, a casa per aspettare la telefonata di Armando o Ninuccio che puntualmente arrivava. Il telefono era utile davvero, spesso avevano chiamato il meccanico per i guasti al trattore, o i rifornimenti di nafta agricola che il benzinaio mandava in bidoni. Tutto questo faceva sentire Olindo un po’ più audace nel chiedere servigi col trattore, e zì Paruccio più disponibile ad eseguirli. Il vecchio lavò la sua faccia nel catino, non sanguinava più ma era gonfio proprio sotto l’occhio sinistro, nella disgrazia pensò di essere stato fortunato, un po’ più su, e il grappolo d’uva gli avrebbe rotto l’occhio.
Infilò i pantaloni e le scarpe con molta difficoltà, ma la maglia e la canottiera pulita, andarono giù meglio tranne per l’abbottonatura; effettivamente costatò che la mano sinistra era intorpidita e lenta. Il mal di testa che seguì le depresse molto e quando uscì nel sole accecante dell’aia si difese gli occhi abbassando ancora di più il cappello di paglia sulla fronte. Guardò su in cima al colle dietro al boschetto di lecci, la masseria di Olindo e il telefono gli sembrarono irraggiungibili, ma si incamminò per lo stradone pensando che era la sua unica possibilità.
Olindo si era seduto su una roccia coperta da licheni grigi e gialli, stanco dell’attesa; spiare zì Paruccio nascosto nel boschetto quel mattino, gli era sembrato inutile, doveva decidersi, subito, doveva inchinarsi al suo compare per salvare la “stipa”, doveva inginocchiarsi magari con le lacrime agli occhi e chiedere il trattore. Voleva, ma non poteva convincersi che solamente questa sua umiliazione avrebbe fatto rifiorire la terra, il grano era ancora in tempo per essere seminato, tutto sarebbe tornato come prima quasi come quando c’erano Santina e Rosa, quasi come quando andava a caccia a quaglie e beccacce, ma quella zampa mancante di Lola, accovacciata più in là, sotto un cespuglio di ginestre, gli appariva come una insopportabile mostruosità, sempre presente intorno a lui, che gridava oscenamente tutta la rabbia e il dolore mentre volava nell’aria staccata dalla spalla di Lola. Ma come mai ancora non usciva di casa zì Paruccio. Quel mattino in cui i contrasti dilaniavano la sua mente e il suo cuore, zì Paruccio tardava troppo, non era mai uscito più tardi delle sette, proprio quel mattino che per lui rappresentava il culmine della sua tensione, non usciva, alle nove zì Paruccio non usciva, gli sembrava per la prima volta di essere solo, solo come la pietra su cui sgomento sedeva, solo come la doppietta appesa al muro da troppo tempo. Zì Paruccio spuntò sulla soglia di casa con la camicia pulita e il cappello di paglia sugli occhi, Olindo balzò in piedi suscitando in Lola uno scatto della testa. Olindo vide zì Paruccio indugiare un attimo sull’aia e poi incamminarsi per lo stradone. Dove andava il suo nemico? perché gli sembrò più vecchio del giorno prima? Vedeva zì Paruccio salire su per lo stradone assolato, mentre appariva e spariva continuamente dietro le siepi lungo la strada, l’anima di Olindo ricominciò a pesargli nel petto, accelerando i battiti del cuore, che adesso sentiva chiaramente in gola fin nelle orecchie. Zì Paruccio arrivò alla fontana di tufo e vi si fermò per rinfrescarsi col fazzoletto intriso d’acqua fresca sulla fronte madida, immerse le mani nella grande vasca di tufo grigio coperta di muschio dove l’acqua batteva prima di arrivare ad unirsi all’altra acqua già sgorgata un attimo prima. Olindo vide che poi non svoltò verso il fiume, ma imboccò il viale che portava su alla sua casa; zì Paruccio veniva da lui, non c’era errore, il viale portava alla sua masseria, passando solo per le stalle e il pagliaio prima di arrivare sull’aia di fronte alla porta chiusa della cucina. Perché zì Paruccio osava tanto; perché saliva piano e inesorabile come se avesse bene in mente ciò che voleva, e che voleva, voleva forse chiedergli di perdonarlo per avere azzoppato Lola, di aver troncato con uno sparo anche il filo a cui era appeso il suo equilibrio, scaraventandolo in un silenzio cupo tormentato da struggenti languori per la sua terra? Olindo si nascose tra i cespugli bassi del boschetto, seguendo col cuore in tumulto i passi di zì Paruccio che improvvisamente apparve sull’aia uscendo dall’ombra del pagliaio; Lola saltò su abbaiando e correndo in un buffo e anomalo dimenare di zampe ma quando riconobbe zì Paruccio, gli si avvicinò in un gioioso guaire recuperando dignità e compostezza per un vecchio amico verso il quale sentiva solo affetto e amicizia. Leccò avida la mano di zì Paruccio che a vederla per la prima volta da quel disgraziato mattino, si commosse e l’accarezzò forte sulla testa e sul mantello mogano chiamandola per nome. Olindo assistette sgomento, pietrificato a questo incontro, mai si sarebbe aspettato da Lola questo perdono, questa resa totale e immediata al suo torturatore, aveva sempre immaginato una vendetta fatta di azzannamenti furiosi, latrati rauchi di lacerazione sulle carni di zì Paruccio che avrebbero in parte lenito le sue che si portava dentro e che ormai non versavano più sangue, ma sostanze purulenti. Zitto, col cuore in subbuglio e gli occhi sbarrati, Olindo assisteva impotente al disfacimento dei suoi sentimenti, assisteva immobile allo scollarsi delle tensioni con le quali aveva riempito la sua esistenza. Zì Paruccio chiamò Olindo la prima volta, tra i festosi latrati di Lola, nessuno rispose, chiamò ancora e Lola zittì, si avvicinò alla porta e bussò furiosamente spingendo. La fatica della salita aveva ridotto zì Paruccio ad una maschera di sudore. Olindo sempre più immobile nel suo rifugio, sentiva il suo nome gridato e pensava che era stata una fortuna per lui non trovarsi a vista di zì Paruccio, con quella foga che aveva, gli avrebbe rinfacciato l’affetto che Lola aveva mostrato vedendolo, e avrebbe riso di lui, e sentì in quel momento la rabbia montargli su, lenta ma irrefrenabile, mentre fissava rapito i cespugli di ginestre dove prima riposava Lola.
Zì Paruccio si sostenne alla porta della cucina, mentre un rombo nella sua testa disturbava i suoi sensi, si domandò come mai era lì a gridare il nome di Olindo, mentre l’equilibrio diventava a mano a mano più precario, gli passò per la mente il telefono, ma l’unica cosa che rimaneva nella sua testa era il suo trillo, ma non così acuto, più basso, sordo, doloroso. Si incamminò lungo lo stradone in compagnia di Lola avendo avanti solo la sua masseria, la sua casa, là dove era nato. Olindo si mosse piano, sudato si sporse dietro un nero leccio, scorgendo ormai solo la schiena di zì Paruccio che ritornava sullo stradone. Adesso andava via, colui che avrebbe voluto anche mortificarlo con le sue risate, irriderlo davanti a Lola nella sua casa, tutto per un maledetto trattore che non avrebbe mai più voluto sulla sua terra, mai più sentirne il puzzo e il rumore, mai più. Che bruciasse pure tutta la sua proprietà tra le fiamme dell’incuria, che tutta la stipa incenerisse ma zì Paruccio e il suo trattore non sarebbero più passati sulla sua terra. Si avviò, in preda ad un furore incontenibile, per lo stradone perché finalmente avrebbe gridato a zì Paruccio tutto l’odio che aveva dentro, tutta la rabbia che aveva accumulato in anni di asservimento; poteva andarsene al diavolo insieme al suo trattore, ma voleva dirglielo, urlargli in faccia ogni umiliazione a cui aveva dovuto inchinarsi, era piena la misura sarebbe scoppiato se non l’avesse fatto, e così si avviò furioso verso la masseria della valle.
Zì Paruccio non si fermò alla fontana di tufo, anzi, non ci fece caso quando le passò accanto barcollando con le mani premute sulle tempie e, arrivò sull’aia, e non si accorse di dirigersi verso la rimessa dove si trovava il trattore. Lola lo precedette di qualche passo muta, sbarrando gli occhi dalla luce accecante all’ombra fresca e muschiosa del capannone, zì Paruccio non si accorse nemmeno del trattore che improvvisamente gli si parò davanti perché cadde, cadde per sempre, morendo con la testa bianca tra le mani callose. Lola l’annusò, più volte gli girò intorno saltellando sulle tre zampe e si accucciò accanto a lui mugolando. Olindo arrivò poco dopo, scorse Lola nel buio del garage, e si precipitò dove sapeva che anche zì Paruccio era entrato, pronto a scoppiare come una bomba con una miccia troppo lunga, che finalmente poteva deflagrare. Entrò nell’aria fresca della rimessa chiamando zì Paruccio, lo chiamò solo due volte, Lola non si alzò ma guardò Olindo che ascoltava una eco che non c’era, e un profumo di lauro misto all’odore della carne salata, composta in una madia che non c’era.