Di Dalia Coronato
Sana Cheema, pakistana residente a Brescia è una ragazza giovane, bella e senza velo. Ventisei anni il prossimo 5 agosto, Sana, diplomata all’istituto superiore Pascal di Verolanuova, lavora come insegnante di scuola guida, vuole sposare un italiano e si sente italiana, veste all’occidentale e non va d’accordo con il padre. Un anno fa riceve il passaporto del nostro Paese e decide di andare a trovare la sorella Saba, la quale aveva da poco partorito una bambina. Vuole stare via solo per un paio di mesi Sana, ma da sabato 21 aprile è iniziata a circolare la notizia della sua morte nel villaggio Mangowall Shadiwall dove è nata e dove è tornata alla fine di gennaio.
Cause naturali dichiara la famiglia. Omicidio volontario sospetta la polizia italiana. Così, la Procura di Brescia apre un’inchiesta, affidata al sostituto procuratore Ambrogio Cassiani che si mette presto in contatto con l’ambasciata italiana di Islamabad per avere tutta la documentazione del caso e i primi indagati risultano il padre, Mustafa Ghulam, insieme al fratello e allo zio della giovane donna. Molti sono i dubbi che alimentano i sospetti delle autorità pakistane e italiane, insolita la fretta delle procedure di tumulazione senza autorizzazioni. Intanto Mustafa Ghulam, Adnan e Iqbal Mazharn, familiari della venticinquenne, sono sotto custodia cautelare in Pakistan con l’accusa di omicidio. Dopo la riesumazione del corpo, i medici legali hanno prelevato alcuni organi per un’autopsia. Non ci resta che attendere dai 15 giorni ai tre mesi prima di scoprire la verità sulle cause del decesso.
Ma perché sarebbe stata uccisa dal padre Sana Cheema ?
Il caso potrebbe far pensare ad un reato culturalmente motivato. Il padre avrebbe agito per difendere l’onore, restaurare il decoro perduto e il prestigio sociale della famiglia. In Pakistan il concetto di onore è legato al comportamento sessuale della donna. Sana non vuole sposare pretendenti indicati dalla famiglia e il suo rifiuto deve essere in qualche modo punito, e l’omicidio può essere un modus operandi per restaurare il decoro perduto.
Sana come Hina Saleem?
Un caso che nel 2008-2009 desta scalpore e solleva molte discussioni in giurisprudenza e in dottrina è la vicenda di Hina Saleem, una ventenne pakistana uccisa dal padre e dagli zii per poi essere seppellita nel giardino di casa con la testa rivolta verso la Mecca. La giovanissima donna viene punita per essersi sottratta al codice etico della sua famiglia. Hina come Sana vuole vivere all’occidentale, fidanzarsi e convivere con un ragazzo italiano e questo non viene accettato dalla famiglia d’origine.
“In Pakistan la rispettabilità dell’uomo è direttamente proporzionale al decoro espresso dalla donna e dal suo corpo. La poligamia maschile, il diritto dell’uomo al divorzio, la circoncisione delle bambine, l’uso del velo sono tutte usanze radicate nella cultura pakistana, uno dei Paesi più conservatori del mondo islamico, e girano intorno all’onore femminile. Infatti, in carcere gli honour killing ricevono trattamenti speciali, perché hanno ucciso per salvare l’onore e quindi vanno rispettati. Il padre di Hina viene condannato per omicidio premeditato e non viene data alcuna rilevanza alla sua cultura d’origine ai fini di una mitigazione della pena”, scrive Cristina de Maglie, docente di diritto penale presso l’università statale di Milano.
L’equazione cultura dell’imputato uguale reato culturalmente motivato non è sempre automatica. E’ necessario fare una distinzione tra il motivo culturale del soggetto con il suo comportamento e il fatto culturalmente motivato. La prova dell’esistenza del fatto culturalmente motivato deve passare attraverso determinati gradi di accertamento, uno dei più decisivi è la cd. coincidenza di reazione. Bisogna dimostrare che il motivo culturale non è solo espressione della cultura del singolo, ma anche espressione della cultura del gruppo etnico di minoranza del soggetto. E’ fondamentale verificare che l’agente fa parte di un gruppo etnico ed appurare che il gruppo, una minoranza culturale nel sistema di accoglienza (quindi nel sistema giuridico italiano), si sarebbe comportato allo stesso modo in cui si è comportato l’agente. Se la prova della connessione tra singolo e gruppo manca, allora non possiamo dirci di trovarci davanti ad un fatto culturalmente motivato, e di conseguenza lo straniero non può’ invocare la scriminante dell’esercizio di un diritto riconosciuto nel paese di provenienza.