“Film come sogno, film come musica. Nessun’altra arte come il cinema va direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della nostra anima, sfiorando la nostra coscienza diurna. Un nulla del nostro nervo ottico, uno shock: ventiquattro gradini illuminati al secondo, e tra di essi il buio”
(Ingmar Bergman)
Ingmar Bergman nasce Uppsala (Svezia) nel 1918. È stato uno dei massimi maestri della settima arte, qualsiasi descrizione introduttiva risulterebbe scarna o riduttiva. Non è certo un’impresa da niente la densità e il valore dell’insieme della sua produzione: la sua filmografia è vasta, e la ricchezza dell’eredità di Bergman risiede nella portata rivoluzionaria di pellicole che hanno segnato l’immaginario cinematografico e culturale di diverse generazioni. Il regista svedese ha anche inevitabilmente influenzato registi del calibro di François Truffaut, Jean-Luc Godard, Andrei Tarkovsky, Robert Altman, David Lynch.
“Ha inventato un vocabolario cinematografico per ciò che voleva dire, qualcosa che non era realmente stato fatto prima di allora. Era il contrario di ciò che si imparava in una scuola di cinema, ma era enormemente efficace e appassionante”, ha detto Woody Allen. Scegliendo di non seguire alcuna regola e convinzione precedente, Bergman ha imposto un nuovo modo di fare cinema.
L’idea per “Il settimo sigillo” venne a Bergman contemplando gli affreschi delle chiese medievali: menestrelli ambulanti, appestati, flagellanti, streghe sul rogo, crociati, e poi la Morte che gioca a scacchi. Il soggetto deriva peraltro da un atto unico scritto da lui stesso nel 1954 per un saggio di recitazione degli allievi dell’Accademia Drammatica di Malmö. Era una breve rappresentazione scenica di una cinquantina di minuti, intitolata “Pittura su legno”, e servì molto bene per l’uso cui era destinata, conteneva parti per tutti gli allievi. Un paio di anni dopo Bergman, mentre ascoltava il disco dei “Carmina burana” di Orff, ebbe l’idea di trasformare “Pittura su legno” in un film. Il produttore però non ne volle sapere. Poco dopo “Sorrisi di una notte d’estate” (1955) veniva presentato a Cannes e gratificato da un grande successo. Forte del risultato ottenuto, Bergman ripropose il soggetto de “Il settimo sigillo”. La risposta questa volta fu positiva, a patto che la realizzazione non durasse più di trenta giorni. E così fu. La pellicola consolidò la fama del regista, ebbe al Festival di Cannes del 1957 il premio speciale della Giuria e nel 1958 ricevette il Gran Premio dell’Accademia francese del cinema. In Italia, dove venne proiettato quattro anni dopo, ricevette il Nastro d’argento.
Il cavaliere Antonius Block sta facendo ritorno in Danimarca, dove imperversano peste e disperazione, dopo una crociata in Terra Santa. È stanco, deluso. Lo vediamo in riva al mare con il suo scudiero, mentre una voce fuori campo legge alcuni versetti dell’Apocalisse. È l’alba, il cielo è nuvoloso, il mare mosso. Il Cavaliere prega in ginocchio, a mani giunte. Sopraggiunge la personificazione della Morte: è venuta a prenderlo, è da molto che lo segue. Block non è pronto: “Il mio spirito lo è, ma non il mio corpo. Dammi ancora del tempo”. Allora sfida la Morte a una partita a scacchi: sarà salvo finché la partita durerà.
La pellicola inaugura la tematica religiosa che sarà al centro di molti importanti film di Bergman. I due personaggi chiave sono il cavaliere, credente ma assalito dal dubbio, e lo scudiero, indifferente, materialista. La crisi del cavaliere deriva dalla delusione della crociata cui ha preso parte. Confidandosi con il monaco che poi si manifesterà come la personificazione della Morte, Block dice: “Vorrei confessarmi ma non ne sono capace perché il mio cuore è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e paura, indifferenza verso il prossimo, verso i miei irriconoscibili simili”. Bergman mostra la disperazione di un uomo che non riconosce se stesso nei suoi simili, perché non riesce a capire il valore del suo essere uomo. Si anticipa il tema della paura, che avrà grande spazio nella poetica di Bergman. Alla domanda della Morte “Non credi che sarebbe meglio morire?”, il cavaliere risponde: “L’ignoto mi atterrisce. Voglio sapere senza fede, senza ipotesi. Voglio la certezza. Voglio che Dio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto e voglio che mi parli”. Qui è espressa in modo didascalico tutta la problematica esistenziale del cinema bergmaniano. La parabola è chiara e lineare.
La rappresentazione cinematografica in questo caso non serve a dare risposte, ma a sollevare domande ed interrogativi, come la Morte non offre alcuna risposta al cavaliere che, reduce dalle crociate, si interroga sul senso delle cose, sullo scopo ultimo della vita. “Il settimo sigillo” mostra la reazione dell’uomo di fronte all’incomprensibile, al dubbio sull’effettiva esistenza di un disegno divino, provvidenziale. La metafora della partita a scacchi con la Morte diventa dunque un capolavoro: è un gioco, ma c’è in ballo la vita. Tema centrale della pellicola è proprio la ricerca di Dio, un Dio che pare indifferente alle suppliche dei suoi proseliti. Bergman dipinge un Medioevo oscuro e violento, un paese sconvolto dalla pestilenza, dalla disperazione, nel quale vivono il terrore e il fanatismo religioso. “Il settimo sigillo” non è un film sulla morte, è una profonda riflessione sulla vita e sul suo significato.
Mariantonietta Losanno