Lars Von Trier (classe 1956) è un regista anticonformista, visionario e controverso. Insieme a Thomas Vintenberg ha lanciato il Dogma 95, un movimento cinematografico fondato su precise regole espresse in un manifesto programmatico pubblicato nel 1995, che inizia così : “Dogma 95 è un collettivo di registi cinematografici fondato a Copenhagen nella primavera del 1995. Dogma 95 si pone lo scopo dichiarato di contrastare “una certa tendenza” del cinema attuale. Dogma 95 è un’azione di salvataggio!”. L’obiettivo era quello di “purificare” il cinema, un intento molto ambizioso e certamente non usuale, che ci fa intendere che la personalità di Lars Von Trier è assolutamente lontana dal panorama mainstream.
Quello di Lars Von Trier è un cinema provocatorio, oltraggioso, disturbante, indisponente, il che non sembra proprio aderire alle ferree regole del Dogma 95. C’è anche da dire, però, che i propositi che compaiano in quella famosa dichiarazione di intenti erano difficilmente attuabili per qualsiasi autore cinematografico che avesse voglia di sperimentare. Attenersi a regole del tipo: “le riprese vanno girate sulle location, non devono essere portate scenografie ed oggetti di scena, il suono non deve mai essere prodotto a parte dalle immagini e viceversa, la macchina da presa deve essere portata a mano, lavori ottici e filtri non sono permessi, l’alienazione temporale e geografica non è permessa”, non è di certo un compito facile da rispettare. Dunque, tutti i precetti del Dogma appaiono oggi incomprensibili e inutili.
“Se potessi spiegare me stesso con le parole non avrei bisogno di fare film”, afferma il regista svedese. Ed è proprio dall’analisi dei suoi lavori che vogliamo provare a fornire un’immagine più chiara di questo eccentrico regista contemporaneo. Entriamo nel regno dell’estremo.
“Dogville” (2003)
Dogville è un piccolo villaggio americano degli anni ’30 sulle Montagne Rocciose, in cui vivono appena quindici abitanti. La particolarità è che in realtà la cittadina non esiste, è solo disegnata sul palco di un teatro, dall’alto sembra una lavagna nera, in cui i contorni e le strade sono disegnate con un gessetto, le porte e le pareti sono solo immaginarie, possiamo sentire i cigolii. Quello che accade a Dogville però è tutto reale.
Una giovane ragazza, Grace Mulligan, sta fuggendo da alcuni gangster, e uno degli abitanti di Dogville le offre rifugio in cambio di lavoro. Inizialmente restii all’idea di far entrare un estraneo nel loro territorio, gli abitanti del paesino si convincono e decidono di dare aiuto alla ragazza, dal momento in cui Dogville è sicuramente un luogo dove i gangster che sono sulle sue tracce non verrebbero a cercarla. La pellicola è divisa in atti, precisamente nove più il prologo, in cui Grace, se al principio era riuscita a trovare un equilibrio con gli abitanti del posto, diventa vittima di sfruttamenti di ogni tipo, ricatti e violenze. Grace perdona tutto, accetta la meschinità e continua a subire le torture che le vengono inflitte. Quello che si scoprirà nel finale è che in realtà il gangster da cui è ricercata è suo padre, che una volta ritrovata la figlia, le farà comprendere l’infondatezza delle sue azioni, convincendola a vendicarsi dei torti subiti.
“Dogville” è un film complesso, che suscita ansie, timori, e sentimenti contrastanti. L’idea di eliminare ogni oggetto e mostrare solo lo scheletro della cittadina pone lo spettatore ancora più a contatto con la meschinità e la cattiveria della gente, che se inizialmente si era mostrata ospitale nei confronti di una ragazza fragile e spaventata, non si preoccupa poi di sfruttarla al punto da renderla una schiava, addirittura legata con un guinzaglio al collo. “Dogville” è una pellicola violenta, feroce, piena di contenuti. Si affrontano temi come l’integrazione, la tolleranza, l’abuso fisico e psicologico, la vendetta, la faida tra popoli confinanti, la sofferenza. Quelle affrontate da Lars Von Trier sono tutte tematiche attuali, la pellicola ci mostra tutto l’iter cui viene sottoposto l’immigrato: la diffidenza, l’accoglienza, lo sfruttamento. L’essere umano si trasforma in un oggetto economico e sessuale. Tutto questo non può che portare a un’unica soluzione: un’inevitabile distruzione.
“Melancholia” (2011)
Lars Von Trier si addentra senza paura nel delirio più profondo in “Melancholia”, una pellicola divisa in due parti che ruota attorno al rapporto conflittuale, ma allo stesso tempo estremamente intimo, tra due sorelle molto diverse fra loro, mentre la terra è minacciata da una catastrofe per l’imminente collisione con il pianeta Melancholia.
“Melancholia” esprime a pieno l’inquietudine e il senso della fine. L’idea per la realizzazione della pellicola ha avuto origine durante una sessione di psicoterapia a cui Lars Von Trier ha partecipato durante il trattamento del suo disturbo depressivo. L’idea del regista svedese è stata quella di analizzare la psiche umana, le sue ossessioni e le sue ansie durante una catastrofe, privandosi dell’ambizione di rappresentare realisticamente l’astrofisica. Ciò che interessa a Lars Von Trier è l’analisi di due approcci diversi alla consapevolezza della morte, non c’è stato mai l’intento di realizzare un film di fantascienza.
Quello a cui assistiamo non è un’apocalisse come siamo abituati a pensarla, con piogge di meteore, scene di panico o follia, è la visione di una famiglia che vive isolata dal resto del mondo, in una villa idilliaca in netto contrasto con tutta l’impostazione del film. Emerge quindi una dimensione personale del dramma, Lars Von Trier è riuscito ad unire atmosfere surreali e grande emotività. Le pellicole che abbiamo analizzato non ammettono un giudizio unanime, il messaggio che se ne ricava deve essere sempre filtrato dalla sensibilità di ogni singolo spettatore.
Mariantonietta Losanno