di Mariantonietta Losanno
Tratto dall’omonimo romanzo di Ugo Facco De Lagarda, e ispirato a fatti di cronaca più o meno simili a quelli già precedentemente portati sullo schermo da Pietro Germi in “Signori e Signore” (1965), “Il commissario Pepe” segna, per molti critici, l’avvenuta maturità di Ettore Scola, dopo i primi esordi alla regia e il primo grande successo nel 1968 con “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?”, con Alberto Sordi e Nino Manfredi. Commissario di polizia di una cittadina veneta apparentemente tranquilla e dignitosa, Antonio Pepe (Ugo Tognazzi) viene incaricato di svolgere indagini su alcune dicerie che riguardano reati a sfondo sessuale, messe in giro da un bizzarro cittadino che scorrazza per la città a bordo della sua carrozzella. Nel corso dell’inchiesta, il commissario avrà modo di scoprire una realtà totalmente diversa, piena di marciume che include anche persone del tutto insospettabili e di un certo prestigio sociale : la figlia minorenne di un prefetto che si prostituisce, un illustre medico omosessuale che ha rapporti con i suoi pazienti, una nobildonna che organizza orge nella sua villa, una suora lesbica che intrattiene rapporti con le novizie. In più, il commissario Pepe scoprirà anche qualcosa che lo riguarda personalmente: Matilde, la sua amante, posa per delle riviste porno. Nonostante il suo buonsenso e la sua tolleranza, il commissario non potrà che provare indignazione e compassione verso gli indagati, deciderà pertanto di proseguire la sua inchiesta e preparare un preciso e documentato dossier al questore, in cui vengono citati i nomi dei colpevoli, anche di quelli della classe sociale spettabile. Ma l’ipocrisia che avvolge le vicissitudini della piccola cittadina verranno condivise anche dai suoi superiori: il questore, infatti, pur complimentandosi per il lavoro compiuto, chiederà espressamente di eliminare di nomi di coloro che appartengono a una classe sociale agiata, e quindi automaticamente intoccabile. Pepe, allora, per non infrangere quell’equilibrio e quell’ipocrisia, per non spezzare quel principio di etica – inesistente – farà una scelta : condannare tutti o nessuno? Chi verrà realmente condannato sarà proprio lui, che non riuscendo a esibire il suo coraggio, brucerà il dossier e chiederà il trasferimento in un’altra sede.
“Il commissario Pepe” è di una sconcertante attualità, nonostante sia ambientato nel ’69. Il contesto storico è particolarmente rilevante, sono gli anni dell’autunno caldo, considerato una sorta di secondo “Biennio rosso”, il periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale. Sono gli anni delle contestazioni studentesche, ma sono anche gli anni che precedono la minaccia del terrorismo e delle prime imprese delle Brigate rosse. La società è la rappresentazione amara di una realtà che non è così distante da quella che ritroviamo oggi, piena di contraddizioni e compromessi. La morale è un concetto non facile da definire, nel film come attualmente.
Il film non incarna in pieno il genere poliziesco, ma “Il commissario Pepe” è un film coraggioso perché realizzato negli anni in cui la simpatia per le forze dell’ordine non era altissima e in più perché racconta una forte verità: il commissario pur non incarnando l’assoluta libertà, è un onesto funzionario dello Stato pagato per non sentire e non vedere quello che, per conservare l’armonia apparente, è giusto non sentire e non vedere. Oppure, è libero di poter condannare chi non ha la stessa forza di infrangere quell’armonia: dove non c’è potere le regole devono essere rispettate e non devono essere compromesse. Ma dove l’autorità c’è, bisogna proteggere chi merita di essere protetto e difendere anche la coerenza e rispettabilità di coloro che incarnano il principio di Potere.
Per dare maggior impatto alla vicenda, anche se l’effetto conseguente è spezzare il ritmo della narrazione, Tognazzi rivolge una domanda precisa allo spettatore guardando in macchina: “Perché, voi siete tutti leoni?”. Sarà il suo successore a scegliere, dimostrando se sarà in grado di avere il coraggio di decidere e condannare senza favoritismi.