“SOMMERHÄUSER”: UNA PELLICOLA DISSACRANTE CHE MESCOLA PASSATO E PRESENTE

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di Mariantonietta Losanno

%name “SOMMERHÄUSER”: UNA PELLICOLA DISSACRANTE CHE MESCOLA PASSATO E PRESENTE“Sommerhäuser” è un film del 2017, esordio alla regia di Sonja Maria Kröner. Vincitore del German Cinema Award del Festival di Monaco nelle categorie di Miglior regista e Miglior produzione, la pellicola ha avuto la sua prima internazionale nella sezione Discovery del Festival di Toronto.

Si tratta di un dramma psicologico ambientato nella Germania Ovest del 1976. L’azione si svolge interamente in una casa di campagna in cui una famiglia si riunisce per la commemorazione della morte della nonna Sophie, una figura che dai racconti dei familiari appare fredda, scostante e poco incline agli affetti. Tutta la famiglia sembra aver ereditato dei tratti simili: i dialoghi, infatti, sono pieni di battute pungenti o insinuazioni. Come se fosse un segno del destino, poi, proprio la notte prima del funerale, un fulmine colpisce l’albero più longevo del giardino. Con il crollo dell’albero cedono anche le barriere del finto perbenismo e delle ipocrisie. E anche gli atteggiamenti passivo-aggressivi vengono smontati.

“Sommerhäuser” è una pellicola dissacrante; l’atmosfera, infatti, ricorda quella de “Il verde prato dell’amore” di Agnès Varda, in cui, tra colori allegri, prati fioriti e sorrisi, si consumava una vera e propria tragedia. I contrasti familiari, invece, riportano al “Carnage” di Roman Polański, nonostante si tratti di un contesto non teatrale; in entrambi i film, infatti, si respira la tensione e il peso scaturiti dall’indossare quella maschera moralista della borghesia. Sonja Maria Kröner dirige in modo raffinato un’opera in cui ai drammi familiari se ne innestano altri, che vengono svelati seguendo la trama di indizi intelligentemente inseriti tra le allegorie di una casa che sa nascondere.

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“Sommerhäuser” mescola passato e presente creando un’opera con diverse sottotrame, che ricorda il cinema intimista e senza etichette di Xavier Dolan, in particolare di “È solo la fine del mondo”. Sonja Maria Kröner si muove tra esuberanza e disperazione e si rifiuta di dare un senso alle discussioni familiari – così come avviene nella vita reale – lasciando allo spettatore la libertà di scovare quello che si cela dietro.

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