di Mariantonietta Losanno
Domani ci sarà più tempo. Domani sarà possibile modificare le cose, mettere in discussione un intero sistema culturale pensato, ideato e difeso dal potere patriarcale. Domani si imporranno nuove idee. C’è tempo, c’è ancora domani. Per Paola Cortellesi è questo il tempo giusto. Il suo esordio alla regia sembra essere la sintesi di una riflessione pregressa e mai interrotta, resa palese in più di un’occasione. Pensiamo al suo monologo al Festival di Sanremo 2018, in cui la regista e attrice poneva a confronto parole “preziose” che al maschile mantengono il loro legittimo significato mentre al femminile acquisiscono una connotazione equivoca, tipica dei luoghi comuni. Pensiamo anche alla sua filmografia, all’esplorazione delle dinamiche del desiderio femminile in “Qualcosa di nuovo” (diretto da Cristina Comencini e interpretato dalla coppia Cortellesi-Ramazzotti), alla rappresentazione del “cervello di ritorno” – dopo essere stato “in fuga” – in “Scusate se esisto!”, o alla “guerra” contro la precarietà del lavoro in “Ma come ci dice il cervello”, entrambi diretti da Riccardo Milani. Allora, “C’è ancora domani” sembra essere il compendio – non in termini di semplificazione – di un discorso iniziato da tempo e di un’urgenza ormai improrogabile. “C’è ancora domani” è, allora, un punto di arrivo e uno di partenza. Di arrivo perché – appunto – nasce da pensieri già precedentemente espressi cinematograficamente e non, e di partenza perché si tratta di un primo contributo registico. Paola Cortellesi opera nel campo della commedia all’italiana con una sensibilità che si manifesta sul piano stilistico non meno che su quello tematico. Ma come sta – oggi – la commedia? Facciamo un passo indietro e torniamo a quando Ettore Scola si “permetteva” di parlare di donne nel suo esordio dietro la macchina da presa nel 1964. “Se permettete, parliamo di donne”, infatti, è il primo esperimento che il regista ha compiuto per equilibrare i principali modi di essere della commedia, quello della farsa e quello del dramma, seguendo la lezione di Pietrangeli – maestro di ritratti femminili – ma facendo riferimento soprattutto a Dino Risi e a “I mostri”. L’opera prima della Cortellesi (presentata e premiata alla Festa del Cinema di Roma) si “permette” di parlare di donne, così come quella di Scola; si azzarda a realizzare il ritratto di una società che si sfrena nel possesso delle cose (sia ieri che oggi), che sfoga i suoi istinti profondi nell’umiliazione della donna ridotta ad oggetto. Tutt’altro che un esordio in sordina, allora. Né (tantomeno) un’opera che cerca necessariamente il compiacimento – o la complicità – della critica e del pubblico. Certo è anche vero che, insistendo su quelle “virtù” degli italiani, gli spettatori possono avere ben poco da ridire. Ma non per questo la “mostruosità ” appare meno mostruosa, a saperla (e volerla) cogliere.
A Roma nella seconda metà degli anni ‘40 Delia (Paola Cortellesi) è la moglie di Ivano (Valerio Mastandrea) e la madre di tre figli. È questo l’unico modo per descriverla: moglie e madre. Questo basta. Il fatto è che, però, Delia ha anche altro. Ha un lavoro, anzi ne ha due. O persino tre. Rammenda, fa iniezioni a domicilio, ripara ombrelli. Ma può lavorare solo se ha il permesso di Ivano e può farlo solo per portare a lui quello che guadagna. Tanto è una “miseria”, il marito glielo ripete continuamente. Delia ha anche un’amica, Marisa (Emanuela Fanelli), l’unica che le permette di evadere dalla sua realtà e a cui può confidare i suoi pensieri più intimi. Non sono solo il marito e i tre figli ad essere a carico di Delia, ma anche il suocero (Sor Ottorino), a cui fa da badante e che qualche volta allunga anche le mani. Ma è compito di Delia occuparsene, altrimenti scatena l’ira di Ivano che alterna parole di disprezzo a punizioni corporali. Appena la primogenita Marcella si fidanza con un bravo ragazzo dell’alta borghesia, Delia si impegna per dare a sua figlia un futuro diverso dal suo. A lei le cose devono andare bene. Un giorno, poi, arriva una lettera di cui non si conosce il mittente a cambiare il corso degli eventi.
Paola Cortellesi è pienamente consapevole che la commedia italiana è stata – ed è – un ginepraio in cui è difficile districarsi, una specie di mercato delle pulci dove c’è stato di tutto. L’hanno fatta Corbucci, Monicelli, Comencini. L’hanno fatta anche Fellini, Pasolini, Franchi e Ingrassia. La commedia italiana è stata la figlia un po’ degenere del neorealismo, una sorta di reazione un po’ reazionaria, in quanto nata come “pacificatoria”. Intesa, cioè, come testimone di un’Italia consolata e paesana, dai pochi riferimenti con la realtà. Poi è cresciuta, ha scavato di più, si è fatta più “inquietante”. Da consolatoria è diventata spesso provocatoria. È in questa direzione che la Cortellesi ha lavorato: verso una commedia all’italiana nella quale, dietro l’eredità del neorealismo e le “magie” della satira, traspira il racconto allegorico, cioè la favola. La regista non rinuncia alle sue licenze umoristiche, anzi, modula in maniera equilibrata motivi storici e sociali, politici ed esistenziali, culturali e cinematografici, armonizzati sul registro di un malinconico ma efficace umorismo critico. La Cortellesi narra – come se maneggiasse un racconto favolistico – e dipinge a “colori” quei ricordi (non solo suoi), fino a farli scomparire. Questo perché quelle memorie sono proprio in quella tonalità . Sono dei non colori, smorti, spessi come quelli della nebbia. Il bianco e nero d’epoca (da sottolineare l’attenzione del direttore della fotografia Davide Leone) si adatta perfettamente alla narrazione che ruota intorno ad uno straordinario concetto: il tempismo. Il tempismo di agire di nascosto e in fretta, di sposarsi con un uomo borghese, di non far cadere una pentola per non subire le reazioni violente del proprio marito. E, ancora, il tempismo di morire in un determinato giorno (il suocero di Delia si spegne nell’unica giornata in cui aveva dei “programmi”), di restituire ad un soldato una foto caduta per terra assicurandosi la sua gratitudine, di perdere un oggetto essenziale nel momento meno indicato. Le diverse circostanze si incastrano insieme all’interno di un discorso (ampio) mirato a mettere in scena vecchi e nuovi “mostri”, per mettere in moto una partecipazione sincera e – ancora – non forzata. Si partecipa al gioco del “c’ero anche io”. Che significa – coniugato al presente – che in quegli abusi ci si rivede, o si ritrovano i racconti di chi c’è stato. Altre madri, altre nonne, o le donne stesse presenti in sala. La Cortellesi conosce la materia che manovra e focalizza l’attenzione verso un’unica e grande verità. Una verità valida ieri, oggi, domani, come ci insegna De Sica: si può discutere di tutto, ma non sulla violenza. La violenza è violenza ed è un progetto, non il risultato di un’istintività. Negli anni ‘40, ‘50 e oggi. Così come l’adesione – e la rassegnazione – della donna a modelli di obbediente funzionalità. È qui che siamo tutti d’accordo. È qui che ogni possibile retorica viene meno. Paola Cortellesi punta al concreto, oltre che al credibile. Sperimenta, gira in 4/3, omaggia i (suoi) maestri (sicuramente Rossellini, ma anche Visconti, Zampa, Risi e Scola), non si affida alla Storia per discutere la questione, lo fa lei stessa. E lo fa esponendosi, ponendosi come modello comune in cui immedesimarsi. Si impegna a farlo nell’attualità, concretamente. «Adesso è forse il tempo della cura», scrive la poetessa Mariangela Gualtieri. Queste parole (ci) vengono in soccorso, manifestando l’urgenza dell’aver cura di noi, ma, prima ancora, di dire “noi”. È in questo pronome che si possono ri-discutere i fatti, ri-affrontare vecchi e nuovi “mostri”. Adesso, in prima persona plurale.
Arriviamo al 1946. Le donne possono finalmente votare. È in questa circostanza che Delia reagisce, ma a modo suo. Poco importa che subito dopo i personaggi vengano restituiti alla tirannia di quei modelli e ruoli. La “trasgressione” c’è stata e resterà. Quantomeno nella memoria di chi l’ha vissuta. E (si spera) anche di chi ne ha preso parte nel tempo di “dopo”, che speriamo sia un po’ diverso da quello di “prima”. Così come Delia mette in atto la sua reazione/rivoluzione – parallelamente – Paola Cortellesi dimostra che non si è sempre quello che le regole impongono di essere. Regole della commedia (e del successo) comprese. Si è in tempo per dimostrarlo. Adesso.