di Mariantonietta Losanno
Per quanto tempo si può guardare uno spazio vuoto senza provare noia? Per quanto tempo ci si può trovare in situazioni claustrofobiche in cui non accade pressoché nulla? Fassbinder ha sempre convissuto con la sua ossessione costruendosi una propria realtà non-comunicativa, costantemente rivolta al nulla. Un nulla che è sempre qualcosa, che – proprio in quanto nulla – è comune alla pluralità delle visioni. Ed è rassicurante, familiare, intimo. Il negativo – e quindi il non – è l’avversario di tutto quello che conosciamo; è quello che non sappiamo ancora, ma che circonda quello che crediamo di sapere. Questo meccanismo – seguendo il suo perverso percorso – (ci) rincuora. Basti pensare alla noia, che W. Benjamin ha descritto come «un caldo panno grigio, rivestito all’interno di una fodera di seta dai più smaglianti colori». Proprio all’interno di questo panno «ci avvolgiamo quando sogniamo, è per questo, allora, che siamo di casa negli arabeschi della fodera». Il fatto è che – quasi sicuramente – al risveglio, quando si vuole raccontare quel sogno, è difficile che si comunichi la noia. Il panno grigio serve solo a proteggere. Katzelmacher (termine dispregiativo che i bavaresi rivolgono ai meridionali) colpisce soprattutto per la quasi totale assenza di pathos. Le cose accadono casualmente, con impercettibili spostamenti. Il fascismo che circola nella periferia descritta nel film è ancora più tremendo perché emerge naturalmente, non come un discorso ideologico, ma come un atteggiamento quotidiano. Cioè consolidato, approvato, certo. A differenza di un’altra pellicola tematicamente affine, come il quasi contemporaneo Scene di caccia in bassa Baviera di Peter Fleischmann, Katzelmacher è più incisivo e lucido perché privo di catarsi.
L’odio verso lo straniero nasce dal disgusto di sé stessi e dalla necessità di una brutale interdipendenza che lega tutti a tutti. I personaggi reiterano le loro passeggiate nei cortili, le loro chiacchiere inutili appoggiati alla ringhiera per un disperato bisogno di non sentirsi soli. La noia e la solitudine generano un sistema di bisogni affettivi in cui ciascuno viene sfruttato dall’altro in termini di denaro e di sentimenti, perché l’equazione fondamentale del gruppo è che il denaro compra il sesso e il sesso procura denaro. La vera saggezza del film sta nel dimostrare (attraverso un linguaggio di una banalità apparentemente sconcertante) che il fascismo non è un’idea, ma una forma di vita, e che i suoi portatori sono altrettanto deboli e disperatamente patetici delle loro vittime. Fassbinder tratta il personaggio del “diverso” in modo obiettivo. Lo fa anche ne La paura mangia l’anima, approcciando in modo né morboso né poetico, ma umano e sincero. Alì, infatti, risulta credibile proprio perché non viene “spiegato”; il regista evita accuratamente l’idealizzazione del buon selvaggio e la retorica dell’escluso.
Sono gli squilibri di Potere ad ossessionare Fassbinder. Il fatto, cioè, che esista sempre una classe che vuole educare un’altra: un uomo la sua donna, un uomo un altro uomo. Questo continuo rapporto servo-padrone (che è quindi fascista) è quello che lo ha spinto, poi, alla realizzazione di opere come Il diritto del più forte, Martha, Effi Briest. E in ognuna di questa opere avviene la stessa “magia”, simbolo di tutto il cinema di Fassbinder, che è la sua capacità di fare “sentire” un dramma anticipandone la soluzione fin dall’inizio. Nel suo microcosmo la dialettica ricco-povero (cioè padrone-servo) è esposta con estrema chiarezza. C’è il corpo, l’impulso sessuale, animale, istintivo. Poi ci sono il denaro e il sesso – legati in un teorema dagli infiniti corollari – su cui Fassbinder si focalizza con un’insistenza che non lascia dubbi. Il denaro, poi, di per sé, non è sufficiente; è necessario spenderlo per produrne altro o per ottenere un riconoscimento sociale.
Il non, lo zero e il nulla sono rintracciabili ad un livello differente, passando attraverso una (sana) inconsapevolezza. D’altronde, Fassbinder lo dice attraverso la citazione di Yaak Karsunke che apre il film: «È meglio compiere nuovi errori che consolidare i vecchi sino alla totale incoscienza». Compito arduo. Ci si può anche riuscire, ma è probabile che riemergendo da un incalcolabile nulla, poi, ci si faccia anche ritorno.