“L’AMICO DELLA MIA AMICA”, ÉRIC ROHMER: L’UTILIZZO (SIMBOLICO) DEI COLORI E L’ESALTAZIONE DELLA BANALITÀ

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di Mariantonietta Losanno

%name “L’AMICO DELLA MIA AMICA”, ÉRIC ROHMER: L’UTILIZZO (SIMBOLICO) DEI COLORI E L’ESALTAZIONE DELLA BANALITÀL’amore e le sue sfumature. E conseguenze. Quante forme – più o meno convenzionali – esistono di un sentimento? Rohmer le indaga (aderendo alle sue regole consolidate) partendo da un legame di amicizia, che si trasforma – adattandosi alle varie circostanze – in un rapporto di competizione, di formazione, di realizzazione.

Lea e Blanche si conoscono per caso, ma sembrano comprendersi da subito. Due personalità diverse, eppure in equilibrio: una più calma e solitaria, l’altra più creativa e dinamica. Prima ancora di caratterizzarne i tratti caratteriali, Rohmer si serve dei colori, che diventano uno strumento simbolico. Il blu e il verde si alternano costantemente per tutta la durata del film; sin dai primi istanti, infatti, i loro vestiti sono espressione dei loro stati d’animo – spesso contraddittori – e dei loro intenti. Il proverbio da cui parte Rohmer, “Gli amici dei miei amici sono miei amici” introduce una riflessione sulla complessità dei legami sentimentali, su quanto spesso siano effimeri, illusori, idealizzati. Alle due protagoniste si aggiungono – incastrandosi, letteralmente – Fabien e Alexandre, rispettivamente il fidanzato e un amico di Lea. Un triangolo amoroso diventa facilmente un quadrilatero, prescindendo dall’indagare la componente sessuale e soffermandosi, invece, sugli “sguardi che cambiano in poche settimane”, sulle prese di coscienze consapevoli ed inconsapevoli, sui tentativi di trovare una definizione (soprattutto) di sè attraverso le relazioni che si instaurano.

%name “L’AMICO DELLA MIA AMICA”, ÉRIC ROHMER: L’UTILIZZO (SIMBOLICO) DEI COLORI E L’ESALTAZIONE DELLA BANALITÀRohmer ha la capacità di enfatizzare tanto le grandi qualità quanto i piccoli difetti, dando spazio a temi impegnati e a grandi – necessarie (!) – banalità. Semplici ovvietà, flussi di pensieri, silenzi. Il regista de “Il ginocchio di Claire” sposta il centro dell’analisi (così come, proprio in quest’ultima opera citata) dall’elemento più prevedibile, a quello più trascurabile. Elevando, così, il discorso ad una componente poetica e profondamente sensibile. Insegnando che una “bellezza banale” può essere affascinante, se osservata da una prospettiva non maliziosa ma appassionata. Sono gli spazi (insieme ai già richiamati colori) a far percepire i cambiamenti: Rohmer attraversa le mutazioni e le contraddittorietà dei personaggi, facendo attenzione ai luoghi asettici e minimalisti, così come agli ambienti caotici e interattivi. “L’amico della mia amica”, che chiude la serie “Commedie e proverbi”, è un’opera che lascia libero sfogo alle disquisizioni personali – spesso irragionevoli – agli slanci e alle illusioni. Rohmer predilige l’improvvisazione: non si avverte formalità – nonostante la cura minima dei dettagli – nelle sue pellicole rivolte (sempre) all’analisi interiore. Alla conoscenza di sé, seppur dolorosa, conformandosi al quotidiano, ma mostrando un interesse verso l’aderenza a modelli non convenzionali nonostante la loro convenzionalità.

Sono continue ipotesi, quelle che suggerisce il regista della nouvelle vague: è un Cinema che cerca spazio e libertà di esprimersi, attraverso – appunto – i colori, le parole, la lentezza che pretende un Tempo di riflessione e di (auto)analisi. E celebra l’ordinarietà, l’astrazione, la contemplazione.