– di Vincenzo D’Anna* –
Premetto che stimo il procuratore Nicola Gratteri come servitore dello Stato e come uomo che si assoggetta, da anni, a vivere segregato e sotto scorta perché esposto ai pericoli della criminalità organizzata. Una vita, la sua, nella quale si bruciano gli affetti familiari e le piccole gioie di un’esistenza normale. Un prezzo molto alto da pagare in nome della giustizia e della sicurezza dei cittadini. Tutto questo gli va riconosciuto ed apprezzato. Tuttavia mi sono già soffermato, in un precedente articolo, sulla sua inclinazione a voler elevare la giurisdizione e le funzioni che egli svolge, in nome della stessa, a quella di giudice etico, ossia a voler utilizzare gli atti giudiziari come presupposto pedagogico e sociologico per redimere la società dalle devianze etiche, a voler andare oltre la funzione di coloro che applicano la legge in quanto tale. Applicarla senza passioni e pregiudizi, senza pretendere che sortisca poi un esito sociale, in grado di redimere le arretratezze culturali e l’inclinazione degli uomini a delinquere. Per questo magistrato è normale, dopo un’azione giudiziaria, imbastire una conferenza stampa nella quale dilungarsi in considerazioni morali ed analisi del contesto del tutto estranee ai propri compiti, ancorché aderenti al proprio modo di essere e di pensare come uomo e come magistrato. Quelle di Gratteri sono sesso analisi soggettive sullo stato del contesto sociale e morale ove alligna il crimine. La facondia verbale del procuratore va di pari passo con la tipologia dei provvedimenti che egli assume: centinaia di arresti buona parte dei quali si concludono poi con l’assoluzione degli indagati, anche se la gogna mediatico giudiziaria subita ne compromette irrimediabilmente vita e attività politica oppure professionale. Insomma: corre il rischio di apparire come una specie di “castigamatti” che spesso travalica i limiti della stretta competenza dell’azione giudiziaria, animato dal fuoco sacro del moralista. Per farla breve, il procuratore tende ad utilizzare la propria scala di valori morali per indagare, manifestando una scarsa attenzione nei confronti dei diritti e delle libertà dei cittadini come se questi fossero sempre e comunque soggetti al sospetto e fosse lecito dubitare ed indagare, in nome del superiore interesse dello Stato. Una via sdrucciolevole che porta a non considerare le cosiddette libertà negative, quelle prerogative del Cittadini che, secondo il filosofo liberale Isaiah Berlin, non sono nelle disponibilità di alcuna autorità. In quest’ottica le libertà ed i diritti non sono soggette, a prescindere, al dubbio ed alla verifica costante di chi esercita la legge. Insomma: un teorema che fa da pariglia con quello che fu coniato dal pool di “Mani Pulite” di Milano e che trovò in Piercamillo Davigo, magistrato e presidente dell’omonima associazione (l’ANM), il suo assertore, ossia che quando non si trovino colpe sull’imputato vorrà dire che non si è ben indagato. A parte la garanzia costituzionali della presunzione di innocenza e la civiltà giuridica in un paese democratico, così facendo finiremmo con l’essere tutti in “libertà provvisoria”. Tutti esposti alla discrezionalità dei pm ed a quel rito ambrosiano inventato nei primi anni ’90 del secolo scorso, dai magistrati meneghini che incarceravano la gente per estorcere confessioni vere o di comodo, per gli inquirenti, che queste fossero. Gratteri è troppo intelligente e scafato per non ricordarsi che lo strapotere delle toghe nasce da questa inversione del diritto, che la gestione dei pentiti da parte dei pubblici ministeri, dietro lauti compensi ed utilità per i malavitosi pentiti, fa carico all’indagato di dover confutare le loro accuse e non al pm di turno doverle provare concretamente. Come il procuratore sa, l’utilizzo spregiudicato ed indeterminato di un reato giurisprudenziale mai tipizzato come il “concorso esterno” costituisce un salvacondotto per l’accusa, che può sbattere in cella chi desidera sulla base anche di una ipotetica contiguità, asserita dai pentiti anche de relato e senza prove. Lo stesso dicasi per i ventimila cittadini che scontano la galera preventiva in attesa del processo e dei suoi tempi biblici. Allora rispondere a Guido Crosetto, ministro della Difesa, che teme interventi dei magistrati politicizzati contro il governo di centrodestra, “male non fare paura non avere”, è un’ipocrisia e certamente non vera per tutti. Crosetto avrebbe potuto replicare – senza la museruola che la premier Meloni ha imposto sulla vicenda – che anche i giudici dovrebbero parlare solo per sentenze, senza protagonismi di sorta. Ma quello che è più grave è che, di questi tempi, viene riproposta ai cittadini da parte di un autorevole magistrato la teoria narrata nel libro di George Orwell dal titolo “1984”, nel quale in ogni casa si installava un occhio telematico per controllare l’onestà degli abitanti, i quali, in quanto onesti, non potevano certo dolersi di questa violazione della privacy da parte di un grande controllore. Che poi la magistratura, onnipotente ed irresponsabile, abbia fatto strame della politica lo sanno anche i bambini. Se del caso chiedere a Luca Palamara.