di Mariantonietta Losanno
Il rapporto con il Cinema di Vittorio De Sica è una storia d’amore. Una storia d’amore particolarmente intensa, vissuta in maniera molto personale – tuttavia – carica di importanti implicazioni oggettive, che riguardano il Cinema e la poesia (il fare cinema) in generale. Il rapporto di De Sica con il Cinema è prima di tutto un amore per sé stesso, un fuoco che si accende e produce un’immagine – il film – e uno sguardo interno. La spontaneità arriva come esito di un processo di auto-identificazione nel ruolo. Nel ruolo di attore, prima di tutto. Ecco perché il narcisismo, ed ecco il Cinema come storia d’amore; questo amore vissuto nella dimensione del sortilegio, o se vogliamo del mito, avvincente e liberatore, a seconda del grado discorsivo che l’autocompiacimento acquista nel farsi rappresentazione, finzione scenica. Da Vittorio a Vittorio: De Sica racconta con il suo cinema, da attore e da regista, la favola di un innamorato, la sorte alterna ma sempre umanissima di un “viaggio”, le cui coordinate soggettive sono imprescindibili e danno la chiave di lettura di ogni riferimento esterno. La “simpatia” (ecco la parola fondante del discorso di De Sica) diviene racconto umoristico e dramma sentimentale, entra nella tecnica del corpo (il sorriso, la camminata dell’attore) e nella sintassi della cinepresa: è il narcisismo che si fa “parola” e che racconta la storia di sé. «La parola – ha detto Lacan – è quella ruota da mulino per la quale il desiderio umano si media incessantemente rientrando nel sistema del linguaggio» (Jacques Lacan, Il seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, Torino, Einaudi, 1978). Per De Sica, la necessità del Cinema è sempre legata alla funzione di una sorta di transfert simbolico, dove il livello sistematico sta con il film in un rapporto tutt’altro che pacifico e regolare.
Per capire De Sica occorre non dimenticare i suoi primi film, soprattutto Maddalena zero in condotta, Teresa Venerdì, I bambini ci guardano. Sono i film che meglio segnano la dimensione in cui devono collocarsi i materiali narrativi che verranno dopo. L’esperienza di attore, quel tipo di esperienza di chi si sente sulla propria pelle nascere e di volta in volta morire una maschera in virtù delle “incomprensibili” leggi del Cinema, tornò utile a De Sica quando si trattò, nel ‘40, a trentadue anni, di passare alla regia. Il Cinema di De Sica tende quasi a fare a meno della cinepresa, tanto l’autore è interessato alla vita dei personaggi, alla naturalezza delle situazioni, anche le più favolose. Se le persone “prese dalla strada” diventano attori, c’è da aggiungere che gli attori, con De Sica, diventano “persone della strada”, perché riescono a fare a meno della mascheratura professionale standard. Il quadro sembra annullarsi, il montaggio sparisce, resta il “miracolo” di qualcosa che vive di vita propria, quasi che improvvisamente si fosse acceso lo schermo, senza che nessuno mai abbia neanche girato le scene.
In Un garibaldino al convento De Sica decide di non mettersi in primo piano; lascia, infatti, per sé la parte di Nino Bixio, che non incide sulla psicologia e sulla consistenza dei personaggi principali. De Sica, evidentemente, procede nella ricerca di una cifra stilistica della messa in scena e preferisce uscire gradualmente dal quadro. Per rivederlo come attore in un film suo, dovremo aspettare il ‘54, con l’episodio dei Giocatori nell’Oro di Napoli. La storia di Caterinetta e Mariella non è soltanto una romanticheria per adolescenti. Il sentimento e lo slancio generoso delle due nel vivere la loro avventura con Leonardo Cortese, il giovane garibaldino rifugiatosi nel giardino del convento di Santa Rossana, sono raccontati non semplicemente per tener dietro ad un modello narrativo di moda, ma con l’impegno preciso di accostarsi alla situazione umana, analizzarla più da vicino, differenziarla nelle sue sfaccettature. Evitando – per altro – di cadere nel serioso o nel melodrammatico. Mantenendo, invece, il tono lieve della commedia. Ed è proprio su questo versante di genere che si possono cogliere somiglianze con i lavori precedenti, Teresa Venerdì e Maddalena zero in condotta, entrambi ambientati in luoghi “pedagogici”. La protagonista di Maddalena, Carla Del Poggio, poi, è addirittura una delle due principali figure del Garibaldino.