di Mariantonietta Losanno
L’ultimo dei quattro cortometraggi firmati da Wes Anderson per Netflix racconta di Harry (Benedict Cumberbatch), un uomo bloccato a letto a causa di un serpente velenoso presumibilmente scivolato sotto le lenzuola e fermatosi a riposare sulla sua pancia. Qualsiasi movimento improvviso (o anche un tono di voce più alto) potrebbe svegliare l’animale e spingerlo a mordere, uccidendo in pochi istanti. Bisogna stare fermi, bisbigliare, osservare. Muoversi in modo leggero, parlare quasi da non farsi ascoltare. In casa di Harry capita il suo amico che, preoccupato per la condizione di pericolo, si precipita – sempre lentamente – a chiamare un medico. Medico che, altrettanto rapidamente – ma senza farsi sentire dal serpente – cerca di prevenire il morso attraverso un farmaco. Cos’è questo serpente? O meglio, cos’è questo veleno? Questa sostanza che definiamo “amara”, o semplicemente dannosa per il corpo e la mente? Nelle (maledettissime) ore di attesa, Harry controlla i suoi movimenti, arrivando persino a governare i suoi pensieri. Raggiunge una nuova “forma”. Diventa, cioè, quasi inconsistente, invisibile, intangibile. Neppure il bisbiglio deve disturbare l’animale. Eppure, non è ancora stato morso. Ma il serpente c’è, lo sente dal peso che ha sulla pancia. Lo avverte dal sudore che tradisce l’apparente imperturbabilità. Lo percepisce dal veleno che inizialmente si rifiuta ma che porta, poi, ad una lenta assuefazione, a un contraddittorio godimento. Persino ad un piacere.
Il veleno è di per sé la rappresentazione di un’esperienza di dolore. È consuetudine di dolore. Forse, è proprio la piena certezza di questa sofferenza – o addirittura della morte – a non dare più una vera pena. Come se l’amaro si confondesse con tutto ciò che, invece, dà piacere. Harry conosce quel “sapore” ancora prima di assaggiarlo. Conosce l’odore, il peso, l’aspetto. Può descrivere con esattezza l’animale che ha su di sé. È sicuro che ci sia, ed è sicuro che abbia una determinata conformazione. Wes Anderson – nelle sale con Asteroid City – consacra la sua prima collaborazione con Netflix nel nome di Roald Dahl, uno degli scrittori più amati dal regista, conosciuto soprattutto per i suoi romanzi di infanzia (La fabbrica di cioccolato, Matilde, Il GGG). Ri-conferma la simmetria nella costituzione dell’immagine, i contrasti cromatici, la macchina da presa in costante movimento. Ma i quattro cortometraggi disponibili sulla piattaforma (Veleno è l’ultimo) hanno un’impostazione volutamente teatrale, come se la cornice (perfetta) dei precedenti quadri cinematografici diventasse – ora – metafora di altro. Non più un semplice congegno che delimita uno spazio (di qualsiasi forma), ma un dispositivo che consente un’immedesimazione e un’imitazione – e quindi una mimesi – inedite.
Cambiano gli spazi in gioco, cambiano le paure, cambiano i gusti. In fondo, Giobbe ci insegna che l’individuo soffre – più che del dolore – del significato che ha acquisito per lui. La percezione del veleno si avverte prima ancora del morso. Anche se il morso non c’è. Non è necessario che ci sia. Quel veleno, così come quel dolore, ha già i suoi tratti caratteristici. È consuetudine, familiarità.