di Mariantonietta Losanno
È tutta fortuna quella di Woody Allen. Certo, si può vivere anche senza, ma forse non si vive tanto bene. «Sono stato fortunato tutta la vita», ammette lui stesso (senza gesti scaramantici!), mentre presenta in anteprima il suo nuovo film, il cinquantesimo. Una fortuna che dura per cinquanta film è proprio una gran bella fortuna. È concesso provare invidia. Ma veniamo all’ultima prova. Si tratta di un film tutto in francese (finalmente, dice sempre Woody Allen), che racconta di alcune coincidenze che accadono nella vita. Da una parte c’è Fanny, che alla fortuna (ancora) ci crede; dall’altra suo marito Jean, che preferisce costruirla/comprarla da sé, senza dipendere da qualsivoglia piano del destino. E poi c’è Alain, ex compagno di classe di Fanny, da sempre innamorato da lei, che ha la fortuna di incontrarla dopo anni e finalmente dichiararsi. Non è propriamente una di quelle circostanze da Destino cieco di Kieślowski, anche se la narrazione si sofferma sul peso che il caso assume nella vita di un uomo. È più una riflessione sul concetto di responsabilità. Sì, stiamo facendo un salto di diciotto anni fino a Match Point: le situazioni sono simili, i riferimenti (a Dostoevskij) pure. In questo caso, però, è lo stesso Woody Allen ad ammettere quanto la fortuna conti nella vita. E allora vince.
È tutta una questione di premi e punizioni. Chi riceve fortuna viene premiato, ma – al tempo stesso – chi la ottiene e, proprio a causa di questa, provoca conseguenze dannose per altri, va punito. E punendo acquisisce fortuna, appropriandosene con la forza. In fondo, è una soluzione anche questa, non può essere tutta una questione di destino. Non bisogna «sprecare il proprio miracolo», viene ripetuto in una delle scene del film. Nonostante gli ostacoli; anzi, accettando ulteriori rischi e complessità. Bisognerebbe immedesimarsi nei personaggi e porsi le stesse domande. Quanto costa la fortuna? E la fortuna che si trasforma in una nuova opportunità? Tutto il cinema alleniano è intriso di freudismo, sindromi, complessi, ristrutturazioni, setting, transfert. Contro la falsità dei mass media, le seduzioni dei linguaggi, delle mitologie, delle ideologie, Allen si fa analista. Confessione dopo confessione, per associazioni visive, lo spettatore è invitato a prendere coscienza dei propri conflitti per auto-emanciparsi. Ogni film, allora, si tramuta in un processo di liberazione per sé e per gli altri, con effetti di salvezza terapeutica reciproca (autore-spettatore). L’analisi interminabile, aiutata dall’umorismo, è una salvezza. Lo stile falsamente comico procede di pari passo con i movimenti interiori e raggiunge l’essenzialità del discorso. Dalla formazione di comico intrattenitore deriva l’improvvisazione dei dialoghi sul set e la frammentarietà del racconto, un puzzle di sketch, disponibile a essere smontato e rimontato senza creare gravi scompensi narrativi.
Nella sua vita al cinema Woody Allen ha dimostrato di saperla sfruttare a pieno la fortuna, senza sprecarne nemmeno un po’. E Coup de Chance ne è la dimostrazione. Un colpo di fortuna che si concretizza in tanti piccoli colpi di genio. E tante piccole “infrazioni”, come quelle di Crimini e misfatti, la cui traduzione italiana non rispetta il senso di “misdemeanors”. In gioco, non è tanto la soluzione di un mistero o l’espiazione di una colpa (come nel cinema di Hitchcock), ma la felicità stessa dell’uomo e l’ambiguità del male (come in Fritz Lang e in Kieślowski). I personaggi di Allen consentono allo spettatore un percorso di autocoscienza (qualità peculiare della psicoanalisi attraverso il cinema) sui grandi temi della responsabilità e della colpa. Qui, però, tutti si giustificano, si autoassolvono, scompaginando le regole del romanzo “suspense” (Todorov), a cui anche Crimini e misfatti richiamava. La struttura è modellata sul genere praticato da Lang e Hitchcock (passando magari per il Truffaut di La calda estate), ma Allen provvede a falsificarne lo schema consolatorio. Tutti gli elementi canonic sono presenti. Inseriti, però, in un contesto dialettico, non lineare, diventano agenti di confronto e ribaltamento della vicenda. Soprattutto l’elemento comico, che nel film “suspense” classico è mero diversivo ironico, qui fa da commento etico-narrativo ai crimini – e misfatti – commessi. Più che di equilibrio formale tra commedia e dramma, la regia cerca di rafforzare progressivamente l’assunto dubitativo del film. Il comico non è altro che tragedia più tempo. Allen liquida – definitivamente – ogni polemica o rischio di confusione linguistica tra i due concetti, comunemente intesi come opposti. Nel film giallo, poi, l’assassino è punito dalla giustizia o dalla sua coscienza. Le creature alleniane non accettano imperativi morali e concedono alla propria coscienza uno stato di totale assopimento. In Coup de Chance la coscienza è sorda e il lieto fine equivale a un’assoluzione del delitto, che non è perdono. Nel giallo classico il “tribunale supremo” è il cinema stesso con le leggi “morali” del racconto e del genere; qui, Allen delega al pubblico la possibilità di un giudizio etico, di un finale narrativo. Tocca a ciascuno spettatore – come al paziente in analisi – assolvere o condannare la qualità della vita rappresentata sullo schermo. Che fortuna ricoprire questo ruolo.