di Mariantonietta Losanno
Sono storie arrabbiate e affamate, quelle di Matteo Garrone. Storie che prediligono un linguaggio fiabesco (ognuno ha le sue ossessioni, no?), ma con un’accezione differente per ogni singolo racconto. Più che lasciarsi inglobare – dissolvendosi? – all’interno del genere (ampio) della fiaba, Garrone sceglie di costruirvi le proprie radici. Il precedente Pinocchio, infatti, ha dei punti di contatto anche con il più recente Io capitano, Leone d’argento a Venezia. Nella sua rivisitazione del romanzo di Collodi si rintracciano le radici popolane del libro, quelle che facevano del burattino e di suo padre falegname due “eroi della fame”; il film, infatti, si apre proprio con Geppetto che cerca di mangiare degli avanzi di pasto convincendo l’oste di una piccola trattoria. Ed è ancora la fame la protagonista in Dogman (è il ringhio di un pitbull ad aprire il film), in cui uomini si trasformano in bestie in una realtà (simile ad un’altra pellicola “rabbiosa” e che “morde”, Amores perros, di Iñárritu) squallida e sporca. I due elementi essenziali sembrano essere proprio la fame (di rivalsa) e l’elemento favolistico, inteso come bisogno di “credere”. Credere, cioè, anche e soprattutto quando la storia risulta poco plausibile – per definizione – eppure può essere ritenuta credibile. Credere persino avendo la consapevolezza assoluta della non plausibilità di quello a cui si assiste.
In Io Capitano è tutto reale. I “mostri” sono persone capaci di umiliare, torturare, minacciare, uccidere. Non c’è pietà che (trat)tenga, né umanità che limiti la crudeltà delle azioni. Seydou e Moussa sono nati e cresciuti in Dakar, ma desiderano far conoscere in Europa la loro musica. Studiano un piano per (sei) mesi, facendo attenzione a non far scoprire nulla alle proprie famiglie che – naturalmente – ostacolerebbero l’impresa. I pochi a cui si rivolgono provano a dissuaderli dal compiere la “grande impresa”, consci della (quasi) certezza della non riuscita. Ma i due adolescenti sono ostinati, forse anche ignari delle reali conseguenze. Solo Seydou – forse per alleggerirsi dai sensi di colpa – tenta di spiegare a sua madre il suo desiderio di partire; lei, prontamente, gli ricorda che per essere “qualcuno” e aiutare la famiglia è sufficiente che respiri quell’aria, quella che possono respirare solo stando lì e solo stando insieme. Ma il viaggio inizia e Garrone (ce) lo racconta tappa per tappa, sviando dalla retorica di un racconto di pietismo.
Veniamo ad uno dei problemi, la disinformazione. Perché si parla ancora di danno arrecato da Gomorra? Forse solo chi non conosce la realtà – e si affida alle favole, in questo caso – può pensare che i romanzi, la serie, il film (ecc.) possano essere stati l’incentivo (come se fosse mai servito) per una cultura criminale prima sconosciuta, nata con i prodotti del – e di – genere. Dicendo questo non si vuole risolvere – svilendo – la questione in una frase/slogan del tipo “film necessario”, a cui tante volte si è fatto ricorso. Io Capitano ri-propone la questione delle responsabilità. Responsabilità reali, al di là degli elementi favolistici che il regista ha scelto di inserirvi (se non lo avesse fatto magari sarebbe stato tacciato di essere stato eccessivamente “crudo”). Responsabilità che si decide o meno di assumersi, non solo mentre si è di fronte al grande schermo, ma in contesti di vita reali (ancora) e che – perlomeno – impongono una dose quotidiana di informazione. Selezionata, consapevole, attiva. Questo è necessario, al di là di quello che – inevitabilmente – trascina con sé l’uscita di un film su un tema così scomodo (o si vuole far finta che non sia così?), che tanti ignorano. Semplicemente perché è più semplice farlo.
Torniamo all’impresa dei due giovani (è lecito chiamarli eroi se non sono gli unici – o gli ultimi – ad aver compiuto questa odissea?), che si sviluppa attraverso delle tappe, in un’escalation continua di violenza e soprusi. Le richieste di soldi e le minacce di incarcerazione, il deserto del Sahara e i cadaveri di quelli che non ce l’hanno fatta, le prigioni libiche e le torture inumane. E, ancora, altri furti, altre violenze, altra disperazione. Seydon e Moussa si supportano a vicenda: quando uno è pronto a mollare l’altro lo incoraggia. Ed è questo a consentire loro di salvarsi. Oltre ad una dose di casualità – perché sarebbe umiliante parlare di fortuna – e ad alcuni incontri fortuiti (c’è anche qualcuno che sa aiutare) che offrono possibilità di scampo. Sarà Seydou, poi, a doversi assumere (ulteriori) responsabilità; sarà lui, cioè, a fare da “capitano” per tutti. «Ce l’ho fatta, sono io il capitano», dice, quando finalmente riesce a portare tutti (e tutti vivi) in Italia.
«O Capitano! Mio Capitano! / Il nostro viaggio tremendo è terminato, / la nave ha superato ogni ostacolo, l’ambito premio è conquistato, / vicino è il porto, odo le campane, tutto il popolo esulta», ha scritto nella sua poesia Walt Whitman dopo la morte del presidente Lincoln, nel 1865. Forse è stata d’ispirazione per Garrone. Forse, invece, ha attinto alle sue componenti fantastiche, in questo caso funzionali a raccontare l’aspetto interiore dei personaggi. Anche Jonas Poher Rasmussen si è servito – nel suo Flee – dell’animazione (che permette di “trasformare” i volti, le forme e i colori) per raccontare un altro viaggio di fuga, e per fare ordine nel dolore, nei ricordi, nei traumi. Un viaggio di cui non si conosce necessariamente la destinazione. Un viaggio in cui si deve scappare su una barca e chiedersi chi salvare – se i propri familiari o sé stessi – nel caso affondasse. È con lo stesso intento che Garrone ha costruito la sua opera, raccontando uno dei tanti tipi di migrazione, quella legata ai giovani (il 70% della popolazione del continente) e al desiderio legittimo di lasciare la propria casa.