di Mariantonietta Losanno
«Lasciami qui, lasciami stare, lasciami così/ Non dire una parola che non sia d’amore/ Per me, per la mia vita che è tutto quello che ho/ È tutto quello che io ho e non è ancora/ Finita, finita»: la voce di Giovanni Lindo Ferretti dei CCCP – nell’inno esistenzialista Annarella – chiude la riflessione di Roberta Torre ne Le favolose. Non è ancora finita, appunto. Non è finito il ricordo, non si sono esauriti i sogni, non è terminata la musica. Sono le amiche di Antonia ad opporre resistenza alla fine, insistendo sul valore del tempo, che rende le cose più chiare, senza cancellarne alcuna. È una villa disabitata il luogo della rievocazione. Quell’abitazione, dove Nicole, Porpora, Sofia, Veet e Mizia hanno convissuto, negli anni ha conservato (semi)intatti delle memorie, alcune felici, altre dolorose. È la stessa Antonia – scomparsa anni prima – a parlare alle sue amiche attraverso una lettera, dove sono esposte le sue ultime volontà, mai soddisfatte. Avrebbe voluto essere sepolta da loro e non dalla sua famiglia naturale, dalle compagne che l’avevano conosciuta e con cui aveva condiviso il suo desiderio di libertà, che ha pagato a caro prezzo.
La villa si trasforma in un luogo per dialogare con Antonia – anche attraverso una seduta spiritica – e per ragionare sul corpo, inteso come atto politico, perché esposto al giudizio, alla critica, alla violenza. Corpo posto sotto i riflettori, corpo venduto e oggettivato, corpo violato anche di fronte alla morte. Viene aperto l’armadio (che «era come un’astronave, che portava in mondi lontani») pieno di colori eccentrici, che quel corpo lo rendeva ancora più favoloso. L’obiettivo è liberarsi dal tempo scandito, sottrarsi a tutto quello che lede – anche in minima parte – la libertà. Scrollandosi di dosso anche gli stereotipi, come quelli legati alla prostituzione, eliminando questo marchio. C’è già tanto (troppo) che nel tempo ha marchiato Antonia e le sue amiche. Le voci della “gente”, la violenza, la paura. La morte, allora, avrebbe potuto essere il raggiungimento di una libertà assoluta, che non deve dire e dare più nulla a nessuno. «Quali sono i vantaggi di morire? Non gliene frega più niente a nessuno se sei uomo o donna», dice Antonia. Sbagliando, purtroppo. Perché, in quella bara, vestita da uomo, sembra non esserci traccia del suo percorso. «Alla morte bisogna arrivarci vivi», ha scritto Alfonso Gatto. Sì, sempre che lo consentano. Altri versi del poeta recitano: «Il nostro dolce parlare/ nel mondo senza paura». Chissà se, nel rievocare i fantasmi che hanno tenuto loro compagnia – soprattutto quello di Antonia, che ha legato tutte – Porpora (Marcasciano, attivista storica del movimento LGBT e presidente onoraria del Movimento Identità Trans) e le altre abbiano smesso di avere paura.
Le favolose, presentato in anteprima alle Giornate degli Autori di Venezia 79, è un documentario che rivendica spazio e tempo. E lo fa ammettendo paura e fragilità, ragionando su tutto quello che è stato sottratto. Sarebbe bello se la vita fosse un gioco, un bellissimo gioco; se si potesse avere il diritto – nel momento della morte – di essere ricordati non per come gli altri pensavano fossimo, ma per quello che si è stati realmente. Un gioco, o meglio uno spettacolo. Perché, Antonia e le sue amiche, tra il delirio e il dramma, hanno sempre scelto lo spettacolo. «Le favolose è il film trans per eccellenza perché le protagoniste al centro del racconto sono trans. Sono loro che raccontano le loro vite e i loro percorsi. Lo definisco come una sorta di Grande freddo trans. Sono tutte donne sulla settantina, a eccezione di una, che incontrandosi in una grande casa ripercorrono come hanno vissuto e attraversato il passaggio del tempo dalla fine degli anni Sessanta a oggi», ha raccontato la regista. In quella grande casa sono state felici, ma nella vita? Roberta Torre prova a sradicare l’idea che il corpo sia un campo di battaglia del Potere. Perché lo spettacolo continui, è necessario deporre le armi e accendere i riflettori. Non è ancora finita, si può essere ancora favolose.