di Mariantonietta Losanno
Bisognerebbe inventare parole nuove per descrivere avvenimenti così indicibili come quelli raccontati dai fratelli Dardenne in Tori e Lokita. Bisognerebbe attrezzarsi adeguatamente, equipaggiandosi per sopportare il dolore; tutto, per un unico obiettivo: riuscire in quella che sembra essere una missione impossibile. E, per portarla a termine, bisognerebbe diventare forti e potenti, al di sopra di tutte le angosce del giorno e dei tormenti della notte. È vero, poi, che in mancanza di parole adeguate, si può fare affidamento sulla musica, che diventa un canto contro la paura.
Conosciamo Lokita assistendo ad uno dei suoi (primi tra tanti) attacchi di panico. È sotto pressione, le continuano a fare domande; tenta di rispondere nel modo giusto, di “ricordarsi” come ha fatto a riconoscere suo fratello. Per poterle dare i documenti, infatti, è necessario dimostrare la loro parentela. Lokita e Tori, però, non sono realmente fratello e sorella. Sono entrambi due immigrati africani che, da quando si sono incontrati, sono sempre riusciti a cavarsela insieme. Guardandoli, però, non ci sono dubbi: sembrano una famiglia in tutto e per tutto. Nessuno potrebbe metterlo in discussione. Ma non è sufficiente, la missione richiede ben altro. I due – insieme – spacciano droga per conto di Betim, gestore di un ristorante, che a volte paga Lokita per favori sessuali, contro la sua volontà. Loro resistono, mossi dal desiderio di mandare dei soldi alla madre di Lokita – che anche Tori sente, ormai, come sua – e ai suoi fratelli che dovrebbero iniziare la scuola. Sopportano chi li deruba, chi li umilia, chi li sfrutta. Ad un certo punto, poi, vengono separati: lei viene rinchiusa in un hangar a prendersi cura delle piantagioni di cannabis, lui rimane al servizio di Betim. Stando lontani le forze diminuiscono e rimanere focalizzati sulla missione risulta impossibile. Tori trova, allora, un modo per raggiungere la sorella, ma le cose non vanno come previsto.
I fratelli Dardenne si difendono (c’era bisogno di farlo?) dalle accuse mosse: “La retorica populista della destra e dell’estrema destra è molto forte e sfrutta la questione dei migranti per ottenere voti, promuoversi, ecc. E giocano sulla paura. E penso che sia terribile. E proprio in relazione a questo, il nostro film è una risposta. Il nostro film mostra due giovani migranti che sono due individui”. Raccontare gli individui, non i personaggi: questo è l’obiettivo. Ed è anche la convinzione che ha sostenuto il loro cinema. Che ha permesso loro di non perdere mai di vista la realtà, che è una realtà che ci (ri)guarda, che punisce e fa sentire sporchi (nonostante Tori supporti la sorella dicendole: “Ti ha costretta, è lui che è sporco”); che pone alcune vite in secondo piano, come se non contassero abbastanza. I fratelli Dardenne (chi meglio di loro, che sono, appunto, fratelli?) danno spazio a quelle vite; quelle dimenticate, sfruttate, ridotte al nulla. Il legame instaurato tra Tori e Lokita consente loro di cogliere persino gli ultimi frammenti di bellezza nel mondo; di rifiutarsi di lasciarsi annientare dal dolore, aggrappandosi a qualche speranza. È la missione a dare loro modo di credere in ogni istante di potercela fare. I Dardenne sono abituati a queste missioni, spesso compiute in tempi brevissimi, anche in Due giorni e una notte.
“Chi può sapere se il vivere non sia morire e se il morire non sia vivere?” Così si interrogava Euripide. Se solo bastasse una canzone a sanare il dolore.