“LE MERAVIGLIE”: PER AVERE LUCE BISOGNA FARSI CREPA

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di Mariantonietta Losanno 

Alice Rohrwacher attinge dalle sue stesse esperienze di vita nel costruire i suoi film. Anche lei, infatti, da piccola accompagnava i genitori apicoltori nei lunghi viaggi in macchina che facevano, soprattutto la notte, per trasportare i prodotti dell’attività di famiglia. Ogni volta che arrivavano da qualche parte, si sedeva nel buio e fantasticava su dove fosse. «Dovevo capirlo basandomi su ciò che sentivo non su ciò che vedevo, così mi mettevo in ascolto del luogo e le informazioni prendevano forma nella mia mente, solo allora aprivo gli occhi», racconta. È per questo che tutti i suoi film iniziano con il buio, per mettere lo spettatore nella stessa prospettiva. Ed è così anche per Le meraviglie, vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes, che racconta la storia di quattro sorelle – “capitanate” dalla più saggia, Gelsomina – contestualizzando il loro “mondo”, per certi versi difficile da confrontare con quello esterno, quello “reale” (?), che (ri)conosciamo dalla modernità di alcuni “strumenti” e dall’evoluzione di alcune relazioni. 

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Gelsomina non si confronta con i suoi coetanei, né si concede – o meglio, le è concesso – di svagarsi, imparare, conoscere. Si attiene alle condizioni dettate dal padre che riconosce in lei la possibile erede di quel “regno”. L’unica, cioè, a poter preservare quel modo di vivere e quella totale abnegazione a tutto il resto, di qualsiasi cosa si tratti. Lei, però, alle prese con l’adolescenza, vorrebbe potersi scoprire e individuare i possibili “mezzi” attraverso i quali si realizza la percezione dello stare al mondo, dell’esserci, sentendo anche il proprio corpo. Con le sorelle minori spesso è severa, come se non dovesse allontanarsi da quel ruolo che il padre ha costruito per lei e continua a presentarle come il solo possibile da ricoprire. «Si sta meglio da soli, no?», le dice il padre. Gelsomina non sembra essere d’accordo e prova a “ribellarsi” inseguendo costantemente la “luce”, intesa in varie accezioni. Luce dei riflettori, quindi del successo e della notorietà; luce come verità e strumento di rivelazione di un (altro) mondo; luce che pone al centro dell’attenzione e dà la possibilità di esprimersi, raccontarsi e conoscersi. La Rohrwacher apre persino il film con una luce, quella dei fari di un’auto che si muove nel buio e poi dissemina degli “spiragli” che Gelsomina e le sue sorelle cercano, per nutrirsene. 

Arriva, poi, una doppia occasione: la presenza di una troupe televisiva che prospetta la possibilità di vincere un concorso (“Il paese delle meraviglie”) e la comparsa di Martin, un ragazzino con precedenti penali che deve seguire un programma di reinserimento. La conduttrice tv attrae ed è attratta subito da Gelsomina: la prima volta che la vede, infatti, le regala un fermaglio, come per farle conoscere una delle possibili “meraviglie”, quella di sentirsi a proprio agio con se stessi. Gelsomina ne rimane ammaliata, come se avesse (finalmente) realizzato che, oltre alle sue api, che – non solo per il suo nome – la cercano continuamente, deve ancora imparare a dare una definizione di “meraviglioso”. Deve far crescere la sua curiosità, alimentarla non solo attraverso quello che la televisione propone, ma anche attraverso il suo sguardo. 

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Alice Rohrwacher focalizza l’attenzione su un unico personaggio, concentrandovi tutte le tematiche del suo cinema che, come il suo mondo, sono “a parte”. Lontane dal resto, in una dimensione e in un tempo diversi. Un cinema che raccoglie frammenti, pensieri, dialoghi e sensazioni apparentemente slegati tra loro e insiste sulla banalità di cose piccole (issime) che riesce sempre ad elevare, a porre sotto una luce diversa. Che richiama al risveglio, al sentire, al corpo, all’ascolto di sé e degli altri. Che avvicina alla spiritualità, intesa come meditazione e preghiera, ma anche come pura pratica. Come, cioè, atto concreto dell’essere pienamente se stessi, nell’idea radicata di stare “dentro”, di vivere la propria essenza, di non automatizzarsi. 

Gelsomina comprende (ad un punto che è quello di inizio e non di fine) quali possono essere gli strumenti per imparare a conoscere le “meraviglie”, per saperle anche proteggere, sapendo individuare cosa – o chi – può avvelenarle.