“AFTERSUN”: RICOMPORRE I RICORDI, RIPETERLI, TRASFORMARLI

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di Mariantonietta Losanno

L’esordio alla regia di Charlotte Wells è una rivelazione: il film, presentato alla Semaine de la Critique a Cannes 2022, è stato già proclamato film dell’anno dalla rivista britannica “Sight & Sound” – nella cui Top Ten spiccano anche “Tár” di Todd Field e “EO” di Jerzy Skolimowski – ed è stato appena distribuito sulla piattaforma Mubi. 

C’è una ricerca di verità nell’opera prima della Wells, un bisogno di “mettere a fuoco” – concetto che fungerà da protagonista all’interno della storia – e di perdonare. Sophie, ormai adulta, (ri)guarda il video di una vacanza in Turchia insieme a suo padre, Calum. Ricorda e prova a rielaborare, attribuendo un significato a quei momenti, sintonizzandosi su quel dolore passato che è ancora così invalidante da impedirle di dormire. Quel viaggio risale a quando aveva undici anni e suo padre trentuno (compiuti proprio in quei giorni); un periodo in cui – dato l’atteggiamento “amichevole” tra loro e la maturità di lei – venivano scambiati per fratello e sorella e in cui si concedevano dei momenti per giocare, divertirsi, conoscersi. In quei ricordi ci sono una serie di parole non dette che si sono “formate” nel corso del tempo, maturando, e che – in qualche modo – ostacolano il presente. È evidente (anche se non reso esplicito) l’assenza – forse la morte (?) – del padre nella vita da adulta di Sophie, ed è tangibile il suo senso di colpa per non essere riuscita a vivere quel rapporto in un’età diversa, in cui si è maggiormente consapevoli di se stessi. Suo padre ha provato a difenderla (a insegnarle anche delle “tecniche” da attuare in caso di aggressione), a insegnarle quello che conosceva, a darle modo di sentirsi libera, incoraggiandola a raccontare “tutto”, anche le cose che, di solito, non si raccontano ad un padre. Eppure, in quel rapporto qualcosa non ha funzionato: le cose taciute (da parte di Sophie perché ancora troppo presto per comprenderle e da parte del padre, per la gran parte, per paura), la distanza, la sofferenza repressa. E poi il tempo. “Puoi vivere dove vuoi. Puoi essere chi vuoi. Hai tempo.”, dice il padre a Sophie, sapendo, invece, di non averne a sufficienza per se stesso. Quella vacanza ha assunto da subito i connotati di un “addio”, come se entrambi fossero stati consapevoli che sarebbero stati gli ultimi momenti insieme. 

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Sophie, ormai adulta, affronta le conseguenze di quel dolore non compreso a pieno quando era ancora una bambina. Ora analizza quelle sensazioni di disagio che provava quando vedeva suo padre nascondere la sua condizione: la sua depressione, la sua “frattura esistenziale” (che richiama la frattura al braccio che aveva in quella vacanza e di cui non è stata spiegata la causa), la sua paura di “trasmetterle” quelle sue stesse mancanze. Ora che è cresciuta, però, trovandosi di fronte a quei ricordi, può ricomporli come vuole, attribuendo anche nuovi significati. Questo processo rimanda al mondo in cui Céline Sciamma ha “accarezzato” temi come la paura della perdita e dell’abbandono, i percorsi di formazione, il dialogo in famiglia e il lutto, in un “piccolo” film – “Petite maman” – capace di misurarsi con i “grandi”, in cui ha ha saputo mantenere uno sguardo “infantile” (che riguarda, cioè, l’infanzia), ma non immaturo. Charlotte Wells costruisce i suoi ricordi personali (lasciandosi aiutare molto dalla musica, che scandisce i momenti, “Losing my religion” dei R.E.M., o la “Macarena”), forzando quelli positivi, in alcuni casi, per lenire il dolore e “giustificando” quelli negativi, per darsi la forza di andare avanti. “È bello condividere lo stesso cielo: anche se non siamo nello stesso posto, in un certo senso lo siamo. Siamo sotto lo stesso cielo, quindi è come se fossimo insieme”, dice la Sophie di undici anni a suo padre, consapevole di doversi aggrappare ad un modo “diverso” per sentirsi vicina a lui, colmando, così, la distanza fisica, quella “reale”. 

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“Cosa immaginavi avresti fatto quando avevi undici anni?”, chiede ingenuamente Sophie. Sono domande che i bambini fanno, stupiti dall’idea che i propri genitori non siano nati già “vecchi” (in questo caso un po’ meno vecchi) e che siano stati anche loro bambini. Questo interrogativo, però, mette in difficoltà Calum, che non riesce neppure a realizzare di essere arrivato a trent’anni, e stenta a credere che riuscirà a compierne quaranta. 

Esiste un momento in cui si ha la forza di mettere a fuoco. Come per una polaroid, che pian piano acquisisce nitidezza e mostra i suoi dettagli e i suoi colori. E Charlotte Wells decide di affrontarlo con naturalezza, rendendo chiari sin da subito i suoi intenti filmici. “Aftersun” (che, come la stessa regista ha raccontato, è una storia dai contorni autobiografici) è insieme dolore e cura. Ha lo stesso effetto di una crema “dopo sole”, che lenisce qualcosa che brucia. È un modo per riappropriarsi dei propri ricordi e, in qualche modo, riscriverli. È un modo per chiedersi ancora scusa e per dimostrarsi affetto. Per cercare presenza nell’assenza, per ritrovarsi ancora sotto lo stesso cielo.  “Manipolare” la memoria così come si “manipola” la materia cinematografica, riscrivendola attraverso il proprio sguardo.