di Mariantonietta Losanno
Anaïs crede di non sapere amare. Non ne è convinta, è un pensiero che mette costantemente in discussione; aspetta che altri (anche estranei) possano aiutarla a capirlo, osservandola con oggettività, come lei non riesce a fare. Nonostante corra costantemente – o, meglio, scappi – dalle responsabilità (è indietro con l’affitto, “dimentica” di dire al suo fidanzato di essere incinta, non risponde al suo relatore perché è indietro con la tesi), Anaïs sente in modo quasi morboso il bisogno di fermarsi: di porre radici, di sentirsi “definita” (grazie ad un lavoro o al fianco di qualcuno), di essere analizzata e compresa. Fugge, si nasconde dietro la sua distrazione, la sua irriverenza che la spinge a fare domande inappropriate in contesti ancora più inappropriati, il suo essere iperattiva e costantemente in movimento. Il fatto che si “muova” sempre, però, non è perché sia realmente impegnata in qualcosa: è semplicemente in movimento, in corsa da un punto ad un altro. Agire la spaventa: la sua dinamicità consiste in movimenti che si susseguono, non in azioni concluse. Nel momento in cui una donna che ammira, che forse invidia, o per cui probabilmente prova attrazione, le domanda chi è veramente, si “aggrappa” al suo “lavoro” (nonostante non ne abbia uno), senza riuscire a darsi una definizione in quanto persona. “Sono Anaïs, sto concludendo la mia tesi di laurea”, dice, come se non sapesse da dove iniziare per stabilire i “confini” di se stessa. C’è una parte di lei che vive di sensi di colpa: nei confronti di sua madre, ad esempio, pensa di essere responsabile della sua malattia, o semplicemente non riesce ad ammettere di non essere all’altezza della situazione.
L’incontro con Emilie la aiuta a “misurare” i suoi sentimenti. A incontrare le sue insicurezze, ad affrontare le sue paure e a liberare le sue fragilità. Finalmente è vulnerabile, reale, viva. È legata ad un’idea probabilmente, non riesce ad essere concreta ed è ancora nella fase della idealizzazione, ma prova qualcosa. Non è mossa dalla “smania compulsiva di sedurre”, ma da quello che sente e da quello che vede nell’altra persona. La stima che ripone in Emilie è tale da darle sicurezza: il fatto di piacerle persuade Anaïs di essere interessante, apprezzabile, piacevole. Questo suo desiderio di suscitare curiosità negli altri è una sorta di ossessione, un obiettivo da raggiungere per potersi ritenere “degna” di un lavoro – e di un amore – soddisfacenti.
La “disobbedienza” di Anaïs la protegge dalla paura di analizzarsi. Dal timore di comprendere i suoi limiti e i suoi errori e di scoprirsi inadeguata, addirittura “sbagliata”. Sono sfumature che Charline Bourgeois-Tacquet cerca di “afferrare” prendendo come modello Truffaut e Rohmer (più il primo che il secondo) e soffermandosi, in particolare, su un’età “vertiginosa”, difficile, di passaggio. “Un’età in cui si è obbligati, volenti o nolenti, a fare delle scelte di lavoro e di vita che ci riguardano da vicino come la scelta di fare o meno un figlio. Un’età in cui siamo chiamati a porci delle domande alle quali non è facile rispondere. È un momento di transizione.”, ha raccontato la regista. “Gli amori di Anaïs” è un’opera leggera ma impaziente, che reagisce alla tristezza scegliendo di “chiedere tanto alla vita”. È un racconto che richiede razionalità e istinto, che spinge a inseguire il “movimento”, a mettersi in moto (anche a correre), a desiderare. Per sentirsi liberi bisogna inciampare tante volte ma altrettante rialzarsi e riprendere il proprio ritmo, o cercarlo, se ancora non è definito.