di Mariantonietta Losanno
È coraggioso l’ultimo film di Virzì: è la rappresentazione di uno scenario post apocalittico che non sembra così distante da quello che viviamo quotidianamente. Nel 2020 fino al 19% della superficie terrestre globale è stata colpita da siccità estrema: un valore che tra il 1950 e il 1999 non aveva mai superato il 13%. Negli ultimi giorni – tanto per fare un altro esempio – si parla di un aumento delle bollette per la luce di circa il 60%. È intuito, allora, immaginare quanto possa essere realistica una condizione in cui viene fornita acqua per due ore al giorno e per un massimo di cinque litri; così come pensare ad un’epidemia (partita, in questo caso, da blatte e non – come si è pensato per il Covid-19 – da pipistrelli) che si manifesta, per chiunque ne è affetto, sotto forma di una sorta di narcolessia. E, ancora, ipotizzare scontri quotidiani, rivolte, percosse, violenza: cittadini che si aggrediscono, tentano di rubare quel poco che si ha a disposizione, diventano egoisti mettendo in pratica alla lettera l’espressione “mors tua, vita mea”.
“Siccità” (presentato fuori concorso alla 79esima Mostra cinematografica di Venezia e la cui sceneggiatura è stato scritta dallo stesso Virzì insieme a Paolo Giordano, Francesca Archibugi e Francesco Piccolo) ha una sinossi semplice: a Roma non piove da tre anni e questa condizione scatena una serie di conseguenze. In questo scenario (semi)distopico si incastrano le vicende dei personaggi: coppie che non si amano più o che non comunicano per non arrivare a dirsi che non si amano più, nevrosi scaturite da un attaccamento morboso ai social network, autoconfessioni deliranti una volta con Bong Joon-ho (è un confronto con il cinema (?), un’altra con il “Presidente”, un’altra ancora con i propri genitori. E poi c’è chi sfrutta la situazione per creare un parco termale e arricchirsi, fingendo di utilizzare l’acqua del mare. C’è la vita nelle carceri che ricorda lo scenario che si è prospettato all’inizio della pandemia da Covid-19, in cui abbiamo assistito al pestaggio dei detenuti da parte della polizia penitenziaria nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dell’aprile del 2020 – al centro di un caso politico in questi giorni per via delle decine di arresti nelle forze dell’ordine e della diffusione di un video che le documenta – e alle morti a Rieti, Bologna e Modena.
Virzì “respira” l’attualità e si confronta con il presente: dopo l’estate più torrida registrata in Italia, nel corso della quale le acque del Po hanno segnato livelli da allarme idrico, il tema dei cambiamenti climatici entra – finalmente – con forza nell’immaginario del cinema. “[…] Con gli altri sceneggiatori ci interrogavamo sul senso del nostro mestiere e sentivamo che un grande punto interrogativo si era posizionato sulle nostre vite. E per questo eravamo interessati a raccontare quello che stava accadendo, anche in termini ambientali, attraverso un dispositivo metaforico sulla realtà che era stata riformulata dal Covid”, ha raccontato il regista. “Abbiamo partorito una visione che poteva suonare come fantascienza e invece ci siamo accorti che stavamo ragionando, in realtà, sull’attualità”, ha proseguito. È un “destino” – anche se, forse, ci sarebbe da chiedersi in che misura dipenda dal “fato” e in quale dalla nostra responsabilità – che riguarda tutti, che potrebbe essere realmente il nostro “domani”.
Quello che dovrebbe mostrarsi come una realtà post pandemica, risulta – invece – una condizione attuale in cui il cambiamento climatico è diventato (e non “sta diventando”) un problema che in maniera tanto prepotente ci spaventa. Virzì non vuole mostrarsi né buonista né vuole indicarci quali sono stati i motivi, ribadendo – fastidiosamente – l’ovvio: è interessato, piuttosto, a condurre un “bilancio” degli anni (ormai già tre) di pandemia e di quello che ci riguarda. Non vuole fornire “soluzioni magiche”: si pone ad una distanza tale da riuscire a raccontare e mettere a fuoco il nostro presente.