di Mariantonietta Losanno
Un regista arriva per sbaglio a Suwon con un giorno di anticipo e, per cercare di trascorrere il tempo prima dell’incontro con il pubblico per un suo film, visita un antico palazzo restaurato dove conosce una giovane pittrice. I due passano la giornata insieme, ma quando lui le rivela di essere spostato lei non vuole più vederlo. Nella seconda parte si ripete la stessa situazione: stessi luoghi, stessi dialoghi e stessi personaggi. Cambiano – quasi in modo impercettibile – gli stati d’animo e (forse) anche l’esito del loro incontro.
Hong Sang-soo “sfrutta” una delle critiche più banali che si possono rivolgere ad un regista (quella, cioè, di “girare sempre lo stesso film”), per farlo davvero. Sviluppa due storie, quasi in tutto uguali, con piccole variazioni che, però, si rivelano essenziali. Una scelta che potrebbe essere vista come un’involuzione piuttosto che un’evoluzione; invece, dimostra quanto siano proprio i dettagli a cambiare il senso degli eventi. Le due parti, infatti, essendo quasi per la gran parte simili, per essere comprese a fondo vanno analizzate. Uno spettatore poco attento potrebbe anche trovarsi nella situazione di dover rivedere la prima parte – data la forte somiglianza con la seconda – per capire dove sta avvenendo il “cambiamento”. Il punto, però, è che il regista sudcoreano non è interessato a sviluppare il concetto di “destino” su cui si è focalizzato Kieślowski. In “Destino cieco”, infatti, il regista della “Trilogia dei colori” insegue il concetto di fato, insistendo su quanto possa influenzare le vite di ognuno; la volontà dell’individuo è ridotta a zero, perché si trova a “subire” le casualità quotidiane che possono cambiare radicalmente il corso degli eventi. Hong Sang-soo, invece, sviluppa due storie che rappresentano la vita che si vorrebbe e la vita che si ha. C’è consapevolezza nei suoi personaggi, non sono in balia del destino. Sono coraggiosi e sensibili, e poi autocommiserativi, disillusi, arrabbiati. Sono i sentimenti che cambiano, non è il destino a scegliere. Nella prima parte, ad esempio, la pittura rappresenta la possibilità di conoscersi e sentirsi vivi; permette di trasformare le percezioni in pensieri e in sentimenti, è un continuo stimolo. Nella seconda, invece, è persino banale, convenzionale; impedisce di avere controllo sui propri sentimenti. Eppure, nonostante il “senso” della pittura cambi, le due storie sembrano legate da continuità. Come se un sentimento non escludesse l’altro.
“Giusto ora, sbagliato dopo”: il significato letterale del titolo suggerisce una riflessione su quanto (spesso) giudichiamo in modo scorretto dei sentimenti negativi. La rabbia, la tristezza, la mancanza di fiducia in se stessi. E tutto questo si traduce in un vittimismo. Ma quei sentimenti non sono necessariamente sbagliati, sono “giusti” nel momento in cui si presentano, come potrebbero non esserlo più in quello successivo. La semplicità e l’efficacia delle immagini di Hong Sang-soo pongono lo spettatore di fronte all’importanza delle sfumature; il regista “gioca” con il suo film, destrutturando il linguaggio narrativo e soffermandosi “su cosa è successo”, non “su cosa sarebbe accaduto se…”. La ripetizione diventa, allora, il punto di forza.
Sono proprio le parole, a volte, ad essere un ostacolo. Il cinema, però, va oltre, tracciando un percorso che non si interrompe, ma che prosegue con dei dettagli differenti.