di Mariantonietta Losanno
“Voglio sapere che cosa sei, voglio vedere quello tu vedi”: mentre dà voce ai suoi personaggi, Terrence Malick si rivolge allo spettatore, invitandolo ad “assorbire” la sua idea di Cinema e a lasciarsi andare, per poter conoscere la sua essenza, il suo sguardo, la sua emotività. Il regista, infatti, parla in modo diretto al suo pubblico, “provocandolo” continuamente, estendendo le sue riflessioni, passando dal particolare all’universale.
Quella di “The Tree of Life” è un’analisi dell’esistenza umana e dell’universo; Malick indaga tutto quello che è infinitamente piccolo e infinitamente grande, parallelamente, ma facendo anche “incastrare” le due cose. La trama, che riprende alcuni episodi autobiografici del regista, ruota intorno ad una famiglia texana degli anni Cinquanta e alla maturazione dei tre figli della coppia formata da Brad Pitt e Jessica Chastain, che hanno due modi diversi di “amare”. Alle dinamiche familiari si alternano riflessioni sul destino, sulle due vie per affrontare la vita (quella della Natura e quella della Grazia), sulla perdita, sullo “schema” che è stato già tracciato, sulla libertà. Terrence Malick si sofferma a riflettere sul perdono, sulla morte, sulla paura, sul dolore. “Non c’è niente che non muore, niente che è immortale?”, si chiede; o ancora, “A che cosa serve avere paura?”, “Perché dovremmo essere “buoni” anche quando gli altri non lo sono?” Domande “esistenziali” che – proprio in quanto tali – non esigono una risposta. Sarebbe paradossale, infatti, pensare che ci sia una spiegazione a fenomeni che (per loro natura) “devono” restare oggetto di una continua discussione. Ed infatti, quello di Terrence Malick è un flusso infinito di pensieri, che si estende anche oltre la durata del film; si espande, acquisisce vita propria, si trasforma in suggestioni, suoni, idee.
Esiste qualcosa di più grande del destino? O, fermandosi ancora prima, esiste il destino? Abbiamo realmente il controllo? In un crescendo di immagini di una bellezza folgorante (grazie anche alla fotografia di Emmanuel Lubezki), accompagnate da commoventi componimenti sinfonici, Malick parla a tutti, ma prima ancora a se stesso. Utilizza la “sua” lingua, attraverso la quale riesce anche a rendere meno banali “frasi fatte” o a rendere poetici altri concetti. “The Tree of Life” pone al centro della narrazione l’evoluzione dell’uomo e quella dell’universo: l’ultimo esempio, probabilmente, di un’opera così audace e visionaria è quello di “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick.
Ci si domanda perché non si possa essere esenti dal Dolore, ci si meraviglia dell’intensa e insensata bellezza delle cose, così intrise di significato e, al tempo stesso, così vuote.
L’opera di Terrence Malick è folgorante e dolorosa. Infinita, esplosiva, trascendentale. È una riflessione filosofica che si sviluppa attraverso concetti di volta in volta messi in discussione e che ricorda il cinema che incanta di Tarkovskij e quello “colorato” di Kieślowski.