di Mariantonietta Losanno
L’esordio alla regia di Carlo Sironi è un’opera di “incontri”. Ermanno, pur non avendo “direzioni”, incontra Lena; Lena, a sua volta, incontra Fabio e Bianca (gli zii di Ermanno) a cui decide di vendere il proprio bambino a fronte del compenso promesso. Tutti e quattro i personaggi, a loro volta, incontrano loro stessi, mettendosi in discussione, accettando(si) almeno in parte, provando anche a diventare quello che non sono.
“Sole” è – in contrasto con il titolo – un’opera “buia”, in cui parlano i vuoti, i silenzi, l’incomunicabilità. Il regista va oltre il discorso delle nascite surrogate, interrogandosi, invece, sull’amore e sull’innamoramento; sulla capacità di dare affetto nonostante non sia stato mai insegnato; sull’essere all’altezza di prendersi cura di qualcuno, non solo ricoprendo il ruolo di padre o madre. Quindi, il tema della maternità “serve” per sviscerarne altri. Sironi si sofferma sul senso di alienazione e smarrimento di Ermanno e Lena, entrambi orfani ed entrambi – almeno apparentemente – incapaci di amare; sull’ostinazione di Fabio e Bianca che desiderano ad ogni costo essere genitori, sulla difficoltà di trovare una propria identità e un proprio posto nel mondo. Lena sente di non conoscere sufficientemente se stessa per essere in grado crescere sua figlia; più che rifiutare la maternità, rifiuta se stessa e il suo “non essere” che la fa sentire sola, incompleta, incompresa. Ermanno rifiuta la sofferenza, come se non si sentisse all’altezza di analizzarla, comprenderla, affrontarla; (soprav)vive pensando di non meritare comprensione, affetto, perdono. Fabio e Bianca agiscono in modo metodico, alienandosi dalla realtà che li circonda e concentrandosi – invece – solo sul loro dolore.
L’essenzialità del titolo rimanda all’essenzialità dell’opera: “Sole” è una pellicola potente e per certi aspetti fredda, che si concede poche debolezze e che si “ricompone” in un doloroso – e salvifico – abbraccio finale. L’opera prima di Carlo Sironi ricorda il cinema dei fratelli Dardenne e, in particolare, “L’Enfant”: entrambe le pellicole si soffermano sulla genitorialità, sull’amoralità che sfocia in una forma di catarsi, su personaggi “senza meta”. “Sole” è l’espressione di un cinema morale e necessario, che non lascia spazio alla retorica o alla facile commozione; il formato 4:3, poi, concorre a creare un’atmosfera claustrofobica che si concentra a fondo sugli sguardi dei protagonisti e sui dettagli. Nonostante l’evoluzione della vicenda sia facilmente prevedibile (così come il tema che, tanto per citare un esempio recente, rimanda a “Il vizio della speranza” di Edoardo De Angelis), il racconto procede mantenendosi in equilibrio tra empatia e pudore; la narrazione volutamente scarna non compromette la riuscita dell’opera. Lo spettatore viene coinvolto senza essere forzato: è la sensibilità di chi dirige a fare la differenza e a permeare l’opera di una “tenerezza” che non ha bisogno di essere “marcata”.
L’incomunicabilità raccontata da Sironi ricorda il cinema di Antonioni: lo spettatore avverte in modo concreto e tangibile le diverse solitudini che si incontrano e scontrandosi si “dissolvono”. Un abbraccio può davvero accendere una speranza su quello che è ancora possibile cambiare.