di Mariantonietta Losanno
Kenneth Branagh apparteneva, come Buddy, il protagonista della storia, ad una famiglia protestante operaia; anche lui aveva appena nove anni quando, nell’estate del 1969 scoppiò la guerra che contrappose Unionisti protestanti e Nazionalisti cattolici nell’Irlanda del Nord, e che spinse la famiglia Branagh a trasferirsi in Inghilterra.
Candidato a sette Premi Oscar – tra cui miglior film e regista – “Belfast” è un’autobiografia sotto forma di favola. Il racconto è filtrato dagli occhi di un bambino, Buddy, che vive nel tumulto di quegli anni e che, però, si rifugia nella finzione e nella fantasia. Una scelta narrativa che ricorda – per più motivi – quella di Taika Waititi nel suo “Jojo Rabbit”: in entrambe le pellicole, infatti, i protagonisti sono due bambini (per l’altro, anche molto simili fisicamente) che osservano la guerra – quella di Unionisti e Nazionalisti da una parte e la seconda guerra mondiale dall’altra – con uno sguardo disincantato tipico di un’età di formazione. Ed entrambe le opere, infatti, si concentrano sulla Storia e sul percorso di maturazione del protagonista. Se, però, il contesto storico in “Jojo Rabbit” viene ricostruito a dovere attraverso (soprattutto) la presenza di un amico immaginario interpretato da Hitler, in “Belfast” la Storia resta sullo sfondo e non diventa protagonista. Per quanto riguarda il percorso di maturazione, invece, nell’opera di Taika Waititi c’è l’immediato riferimento a opere come “Moonrise Kingdom” di Wes Anderson o (forse in modo meno spontaneo) “Submarine” di Richard Ayoade; quella di Branagh è, invece, una formazione “personale” vissuta sulla sua pelle, meno riconducibile ad altre pellicole.
“Belfast” è una narrazione romanzata della realtà, che concede più spazio all’intimità familiare e ai momenti di spensieratezza del periodo della fanciullezza. Branagh vuole arrivare più a se stesso che al suo pubblico; preferisce rivivere la sua infanzia senza concentrarsi eccessivamente sul coinvolgimento dello spettatore: il lato emotivo del regista rimane fondamentale per lo sviluppo della storia, ma la partecipazione e l’immedesimazione del pubblico non sono complete. A differenza di altri film candidati agli Oscar, poi, “Belfast” esprime meno l’idea di “cinema completo”: il punto di vista di Bunny – alter ego di Branagh – occupa eccessivamente la scena da non lasciare sufficiente spazio ad altri. Se Sorrentino ne “È stata la mano di Dio” ha raccontato i momenti cruciali (familiari e non) della sua infanzia suscitando la partecipazione dei suoi fruitori, “Belfast” rappresenta per Branagh l’occasione di comprendere (solo?) cosa significhi essere irlandese: sono approcci diversi all’autobiografia, uno rivolto all’(ri)elaborazione personale e universale, l’altro – forse – solo personale.
Branagh omaggia le sue origini – e anche il Cinema – attraverso un film raffinato e visivamente potente, ma che non si presenta né come un film storico né come un vero e proprio “Amarcord”. “Belfast” è una presa di coscienza, più che un racconto di formazione. E, nonostante sia stato più volte accostato dalla critica a “Roma” di Alfonso Cuarón, la pellicola di Branagh si affida più all’immaginazione che all’indagine precisa ed accurata delle storie messe in scena.