di Mariantonietta Losanno
Per celebrare le festività non può mancare una voce fuori coro: Black Mirror dissacra (anche) il Natale con “White Christmas”. Come tutti gli episodi della serie, ci troviamo “ai confini della realtà”, tra ambientazioni assurde e tecnologie inquietanti. Probabilmente, “White Christmas” è una delle puntate più riuscite, perché viene espresso – narrativamente e graficamente – il massimo potenziale della serie. La sinossi è ben strutturata (ma destinata a non chiarirsi facilmente), così come la sceneggiatura; quel titolo falsamente rassicurante – “White Christmas” – suggerisce l’idea di una favola di Natale, però, tutt’altro che dickensiana.
L’elemento perturbante di “White Christmas” è (forse) che non si racconta il futuro. Ci troviamo in un presente “alternativo” in cui si sviluppano tre storie; ognuna delle vicende ha un protagonista (un ragazzo in cerca di amore, una donna schiava di se stessa e un assassino pentito) e quello che le lega è Matt, che, però, anziché dirigere i personaggi verso la “salvezza”, li conduce verso la distruzione. Con un cinismo “intelligente”, “White Christmas” fa a pezzi il Natale, allontanandosi dal convenzionale buonismo tipico del periodo e mostrando una violenza viscerale impossibile da comprendere. Il prologo iniziale tiene insieme i diversi filoni narrativi: Matt e Joe si trovano imprigionati da cinque anni in un surreale “non-luogo” (in esilio) e cominciano a raccontarsi. Il giorno di Natale si presenta come l’occasione per creare un contatto fra i due: è proprio nella dimensione del racconto e della confessione, prima dell’uno e poi dell’altro, che si arriva ad una forma (in parte comunque surreale) di redenzione. Quella di “White Christmas” è una storia di solitudine e di alienazione che, seppure esasperata, fornisce una visione del reale. Pensiamo soltanto all’attualità del tema dell’isolamento. Matt e Joe sono costretti – per motivi differenti – a vivere in un luogo isolato da tutto e tutti; quanti, oggi, hanno dovuto affrontare un’esperienza simile? Quanti l’hanno sfruttata per chiarirsi con se stessi e, analizzandosi a fondo, per redimersi? Quali possono essere le conseguenze di un isolamento forzato?
Soffermiamoci, poi, sul tema dell’invisibilità. Nell’universo distorto di Black Mirror è possibile “bloccare le persone dalle proprie vite”. Proviamo a spiegarci meglio: è possibile, cioè, trovandosi in una discussione particolarmente accesa o in una situazione scomoda, mettere in “pausa” il proprio interlocutore che automaticamente apparirà come una sagoma di pixel, come succede per una foto di un minori o per scene pornografiche o di violenza. La persona “bloccata” non può, quindi, avere modo di interagire con chi l’ha bloccato. Un meccanismo surreale nasconde una realtà (più che) realistica: i contatti umani spesso si riducono a questo. Se non è possibile realmente “bloccare” la persona fisica, è possibile farlo con la persona virtuale e, quindi, impedire che possa mandare messaggi o telefonare. Volendo ragionare solo razionalmente, si tratta di una forma di invisibilità differente, ma che suggerisce – con un’altra intensità – una riflessione sulla facilità di eclissare qualcuno, di farlo sentire invisibile e, di conseguenza, inconsistente. Un metodo ancora più invasivo di quello utilizzato da Michel Gondry in “Eternal Sunshine of the Spotless Mind” che tentava di cancellare i ricordi – e quindi il dolore – ma non si spingeva al punto da “oscurare” la persona di cui ci si voleva “liberare”. Black Mirror si nutre di meccanismi cervellotici che, però, vengono messi in scena con una tale naturalezza da sembrare plausibili e in nessun modo astratti. Nell’esasperazione, quindi, c’è verità.
“White Christmas” svuota di significato ogni categoria del quotidiano, distruggendo ogni cliché con violenza. E il Natale – emblema di autenticità – si presenta come la cornice perfetta per lo sviluppo delle dinamiche distopiche. Non esistono conclusioni, sono prese di coscienza e rielaborazioni di sé.