di Mariantonietta Losanno
Se non esiste un modo per spiegare (razionalmente) l’ostinazione, il coraggio e – soprattutto – la libertà mentale che ha permesso a Werner Herzog di realizzare il suo film manifesto “Fitzcarraldo”, non può esistere neanche in riferimento a Paul Verhoeven, che, in “Benedetta” – presentato al Festival di Cannes 2021 – ha osato al punto da accostare sessualità e religione.
Che ci sia un pregiudizio che “accusa” la Chiesa di avere “paura” del sesso è una realtà innegabile; come si può, allora, concepire un film/scandalo che affronta (liberamente) questo tema e, nel farlo, eccede anche nella blasfemia? Basato su una storia vera, “Benedetta” è stato adattato dallo stesso Verhoeven, insieme allo sceneggiatore David Birke, dal libro “Atti impuri – Vita di una monaca lesbica nell’Italia del Rinascimento” (1986), che racconta la storia di una monaca (Benedetta Carlini) del XVII secolo che, dopo aver avuto inquietanti visioni erotiche e religiose, inizia una relazione amorosa con un’altra suora. “Sento, e l’ho sentito nella mia vita, che le persone possono essere ispirate dal sacro. Volevo questo, e credo che i personaggi di “Benedetta”, a quel tempo, fossero in un mondo dove il sacro era dominante”, ha spiegato il regista. Verhoeven, più di ogni altra cosa, distrugge: l senso comune delle cose, le idee, le certezze, le convenzioni. In “Elle” poteva essere (forse) individuata la massima espressione della sua amoralità nel raccontare di una donna stuprata che inizia a rincorrere il suo violentatore; quell’audacia e quel modo di “prendere in giro i cliché” inducevano lo spettatore a smarrirsi in un universo sconosciuto e – persino – a distorcere ogni comune attribuzione di significato. In “Benedetta” la distruzione è ancora più forte. Non c’è (solo) la sessualità di “Lei”, cioè di una donna aggrovigliata da frustrazioni e desideri inconfessabili di piacere e dolore: c’è una provocazione impensabile per qualsiasi altro regista. Verhoeven è esattamente dove aspettavamo che fosse: nelle zone d’ombra del desiderio.
E le ombre, nelle sue opere, stimolano la “carne”. Viene stravolto il concetto di “oscenità” e di “pudore”; non è l’amore saffico a scuotere (così come non ci si poteva fermare ad una visione superficiale de “La vita di Adele”, un’intensa e dolorosa disamina sui sentimenti): è la totale assenza di punti di riferimento. Nessuna ipocrisia, nessun filtro e – soprattutto – nessun limite. A che cosa ci si aggrappa, allora, quando ci si ritrova di fronte ad un’opera che non risponde a nessuno schema? Ci si lascia andare? Si vince la paura (la stessa che, secondo Herzog, “non esiste nel vocabolario”)? Perché, quando ci si ritrova sprovvisti di punti di riferimento ci si sente vulnerabili; ed è proprio sulla vulnerabilità che fa leva Verhoeven, spingendo lo spettatore ad analizzare – e a “confessare” – le proprie zone d’ombra. “Benedetta” non fa sconti religiosi o bigotti: mette in scena “il teatro della crudeltà”, come Michael Haneke che, ne “La pianista”, aveva regalato al pubblico una lezione di amoralità e lo aveva trascinato nel punto più profondo della nefandezza. Quello di Verhoeven è – come quello di Haneke, appunto – un cinema violento e crudele, che distrugge: chi osserva, allora, vive un’esperienza radicale che mette in discussione convinzioni e coscienze e tocca il punto più “sporco” del corpo e dell’anima.
Fossero stati altri tempi si sarebbe gridato allo scandalo? O è più corretto dire “fosse stato un altro regista”? Verhoeven non ha alcuna “pietà” – come Kim Ki-duk – o, quello di cui è realmente sprovvisto è la vergogna? “Benedetta” mette in crisi il comune “regime” di fede nell’immagine, per delimitarne uno a parte, personale, in cui si dispiegano ambiguità e delirio. Non si può pensare di assistere ad un’opera del genere cercando di distinguere – in modo superficiale – Bene e Male. Verhoeven va oltre, ed è questo che lo assolve dall’accusa di voler fare Storia: l’unica religione a cui vuole aderire è quella dello spettacolo. Verhoeven ama l’intrattenimento, ma non riesce ad amarlo se non si presenta come atto dissacratorio. È tutto estremo, è tutto vitale perché brutale: “Benedetta” cerca il punto di rottura e aspetta che tutto vada in mille pezzi.