di Mariantonietta Losanno
Uscito nelle sale nel dicembre 1971, “Arancia meccanica” compie cinquant’anni e torna nelle sale in versione restaurata in 4k.
Se “2001: Odissea nello spazio” è il primo film di Kubrick che affronta la Storia, “Lolita” quello più “segreto” perché mostra la perversione, “Arancia meccanica” e “Barry London” focalizzano l’attenzione su un personaggio centrale. Sono i due film di Kubrick più diversi tra loro, ma nello stesso tempo l’uno è il “doppio” dell’altro, formando insieme il requiem o l’inno kubrickiano all’individuo: sono le uniche opere che propongono la “storia” di un singolo, intorno a cui si dispongono gli altri personaggi e le situazioni.
L’“eroe”/narratore Alex è il capo di una banda di adolescenti – composta da altri tre “Drughi” – i cui interessi sono poco vari: ultraviolenza e stupro. In più, Alex ha la passione per Beethoven, che gli serve da potente stimolante. Stanchi di lui, i suoi “adepti” lo consegnano alla polizia; in prigione, viene a sapere che il Governo sta sperimentando la liberazione di criminali dopo “trattamento medico” (la “cura Ludovico”) e si offre volontario per la somministrazione. Diventa, allora, “virtuoso” per riflesso condizionato: tornato in libertà, poi, cade vittima di una serie di vendette e finisce nelle mani dell’opposizione, che vuole servirsi di lui ai fini politici. Sfugge di poco alla morte, viene “guarito” dal Governo e torna ad essere “vizioso”.
I film di Kubrick non si addicono – semplicemente – alle liste e alle composizioni di “palmarès” cinematografici: sono così accanitamente Cinema da divenire “altro”, semplicemente “opere”. Opere che restano sempre (nel) Cinema, non classificabili perché è evidente come Kubrick voglia che ogni suo film superi – senza mai eliminare – il precedente nella tecnica e nella concezione. Così, dopo lo “sfruttamento totale” che “2001: Odissea nello spazio” faceva del cinema, “Arancia meccanica” sembra (persino) tornare a preoccupazioni più “umane” (la violenza, la libertà individuale), mostrandoci tutti i modi in cui lo spettacolo cinematografico agisce sull’occhio e sull’orecchio. “Arancia meccanica” è un concentrato di esperienze visive, un “festival”, un “compendio” di procedimenti e trucchi cinematografici, che ricorda la complessità dei primi quindici minuti di “Quarto potere” (dissolvenze, movimenti in verticale e in avanti, inquadrature espressioniste in profondità di campo, falsi inserti documentaristici, una “sorta di zoom” perfino nel 1941): nella varietà di provocazioni “spettacolari” imposte allo spettatore, il film ci fa subire la stessa “cura Ludovico” che occupa la parte centrale.
La cura consiste in un trattamento che tende a condizionare il comportamento dell’individuo inducendo in lui azioni pavloviane di auto-censura per ogni situazione in cui si trovi ad assumere atteggiamenti di violenza o di aggressione sessuale: una vera e propria “lobotomia degli istinti” tramite il controllo repressivo dei meccanismi psichici. In fondo, però, l’induzione di situazioni di rigetto o di accettazione verso diverse situazioni o manifestazioni reali è il principio cui – alla lontana – si riconduce ogni teoria sull’educazione (da Platone e Aristotele che parlano di “abituare l’individuo a provare piacere solo nelle cose “buone”, a Rousseau e a tutta la pedagogia moderna). La cura prevede la proiezione di pellicole – fino alla nausea – su atti di violenza sessuale, stragi naziste e su ogni altra forma di atrocità; la nausea, però, non deriva dall’accumularsi delle proiezioni e dal ripetersi incessante dell’immagine della violenza. Alex nota con stupore, mentre assiste ad immagini che lo hanno sempre “deliziato”, che sta male fisicamente a causa di una sostanza chimica (che produce in lui conati di vomito, spasmi, dolori alla testa) che gli viene iniettata prima di ogni seduta filmica: non è l’ossessione a generare un rigetto “morale” del Male, ma è il corpo che viene allenato, del tutto artificialmente, a collegare la visione del Male con quella del male fisico. Quando, infatti, gli vengono proiettati documentari sul nazismo accompagnati dalla musica del suo amato Beethoven, anche quella gli diventerà fisicamente repellente. È sintomatico ed ironico che, anche dopo la “cura”, Alex non provi alcun disagio fisico a canticchiare “Singin’in the Rain”, che aveva accompagnato e permesso la “sequenza/balletto” delle violenze e dello stupro: la canzone appartiene al passato di Alex, quando la violenza era solo un “piacere” ed un gioco. Mentre “viene fatto star male”, è costretto a sentire e vedere ciò che in condizioni normali gli farebbe piacere: sperimenta, quindi, la natura di montaggio audiovisivo del cinema.
Kubrick accosta la brutalità di alcune scene alla “familiarità” di un bicchiere di latte, lo stesso che hanno bevuto “Léon”, Javier Bardem in “Non è un paese per vecchi”, “Il grande Lebowski”, e persino quello “avvelenato” da Edgar ne “Gli aristogatti” (?). L’immagine dell’orrore – gli occhi di Alex tenuti aperti con apposite pinzette per obbligarlo a vedere – riproduce (distorcendola) l’immagine dello spettatore in sala. “Arancia meccanica” è il “lieto fine dell’amoralità” del cinema: la violenza si manifesta come puro piacere di distruzione. Andando oltre il fatto che arte ed etica non vadano di pari passo, però, qual è – realmente – il senso della soppressione dell’istinto?