di Mariantonietta Losanno
Una metafora del teatro: “Il materiale emotivo” si “apre” con un sipario, chiarendo subito l’intento di filmare lo spazio come una specie di palcoscenico prolungato. La pellicola, contraddistinta da prove attoriali (fin troppo) caricaturali, racconta la storia di Vincenzo, un libraio italiano a Parigi, che vive in funzione dei suoi libri e di sua figlia Albertine, costretta a casa a causa di un incidente (non approfondito all’interno della narrazione) avvenuto anni prima. Castellitto omaggia Ettore Scola e il suo cinema “dubitativo”, che “pone interrogativi, sottolinea dubbi, avverte domande che sono nell’aria per riproporle” (secondo quanto detto dal regista in un’intervista) utilizzando un suo soggetto – “Un drago a forma di nuvola” – da cui poi Margaret Mazzantini ha tratto la sceneggiatura. Un omaggio a Scola ma anche e soprattutto alla letteratura (oltre che, naturalmente, al teatro): vengono citati Oscar Wilde, Hemingway, Boris Vian, Yourcenair, Dostoevskij, Calvino e, ovviamente, Marcel Proust e “Alla ricerca del tempo perduto”, il cui sesto volume porta proprio il nome di Albertine.
Di “materiale emotivo” in quest’opera ce n’è tanto. E si cattura dagli sguardi, dai dialoghi, dalla poesia. Scaturisce da un incontro, quello con Yolande, un’attrice che – letteralmente – irrompe nella vita di Vincenzo travolgendola completamente, rivoluzionando idee, sentimenti e pensieri. Yolande è istintiva e irruenta, “vomita” ogni pensiero le passi per la testa senza apporre filtri e senza preoccuparsi del contesto che la circonda. Un flusso – per certi versi pericoloso – di idee: è proprio da questa esuberanza e problematicità che Vincenzo si confronta con la realtà, affrontando le difficoltà della figlia che ha scelto di non parlare (e di non vivere), concentrandosi sulla paura, sulla natura dei rapporti umani e sulla perdita. Da un lato, ”materiale emotivo” sta ad indicare lo “strumento” di cui si dispone e da cui si attinge (come si dice, ad esempio, il “materiale di studio”), dall’altro vuole suggerire un ossimoro: “materiale” ovvero concreto, reale e tangibile, in contrapposizione a “emotivo”, cioè impulsivo, passionale, sensibile. Come se si suggerisse, dunque, un approccio “razionale ed istintivo” alle emozioni; un approccio che, se da un lato ci invita a soffermarsi sulla concretezza dei sentimenti e sulle ripercussioni che possono avere sulle persone, dall’altro “pretende” che ci si abbandoni senza riserve. Ed ecco che la metafora del teatro acquisisce un significato più profondo: sul palcoscenico non c’è niente di più vero e niente di più finto. Mentre ci si muove con la fantasia ci si aggrappa anche la realtà. Forse è questa la chiave per “gestire” tutto quel “materiale emotivo”?
Castellitto omaggia il passato con un cinema “vecchio stampo”, scegliendo un’atmosfera vintage – forse un po’ troppo patinata – e vivendo in un “tempo sospeso” in cui, però, prima o poi bisogna fare i conti con il mondo circostante. Yolande è l’elemento che “stride”, che scombussola quell’equilibrio apparente per permettere di riscoprire il sapore delle emozioni ormai assopite da tempo. Perché “rinunciare non è mai una sconfitta”, ma prima di arrendersi si lotta, ci si analizza, ci si mette in discussione. Ne “Il materiale emotivo” gli echi del passato sono fin troppo presenti, sia nelle citazioni – come quella a Luchino Visconti e a “Le notti bianche” – che nelle vita dei protagonisti. Se, però, i classici ci rendono vivi perché “la letteratura rende eterni” è anche vero che “aggrapparsi” al passato nella vita potrebbe apparire come un tentativo di non affrontare la paura e di restare in un limbo emozionale. I personaggi di Castellitto sembrano adagiarsi nella loro malinconia, tutti prigionieri del proprio mondo; lo stesso regista, però, sembra “intrappolato” in una realtà che appartiene solo a lui e a pochi altri che, probabilmente, fosse stata di Ettore Scola sarebbe stata accessibile a tutti. “Il materiale emotivo” resta un po’ chiuso nella libreria del suo protagonista, creando una distanza tra pubblico e palco, nonostante avesse scelto – aprendo e chiudendo il film con un sipario – di “stringere un patto” con gli spettatori e di disegnare sentimenti e flussi di coscienza deliranti con una lucidità illuminata ma con altrettanta sincerità.
Vincenzo resta rinchiuso in più “prigioni”: quella dei suoi libri e quella di Albertine. Decide troppo tardi di (ri)cominciare a vivere. Nel momento in cui si sente all’altezza di raccontare le emozioni rinate e l’adrenalina riacquisita è, forse, troppo tardi. Nonostante questo, Castellitto riesce a spingere lo spettatore a riflettere su cosa rappresenti per ognuno di noi il “materiale emotivo”: per alcuni sono i segreti che custodiamo, per altri le occasioni mancate, per altri ancora l’inconscio o l’emotività. Prima che quelle emozioni restino lì, confinate in uno “spazio sospeso” o nella finzione, sarebbe più audace viverle, perché, nonostante non si abbia la sicurezza di non pentirsene, se la felicità ci “raggiunge” non possiamo che restare al “suo passo”. “Il materiale emotivo” rivendica un desiderio di vivere cercando una sorta di “riscatto”, anche se non dovesse necessariamente arrivare; la vera rivalsa può anche consistere nel tentativo di vedere cosa c’è “oltre” e nel liberare quell’“amore intrappolato”.