di Mariantonietta Losanno
Tony Kaye dirige un documentario “esistenzialista” (dal momento in cui, il pensiero di Camus, espresso sin dai titoli di testa, segue tutta la narrazione), incentrato sul mondo della scuola. Henry Barthes insegna letteratura alle superiori; quando il nuovo incarico lo conduce in un degradato istituto della periferia americana, si trova costretto a mettere in discussione se stesso e la sua professione e a relazionarsi a giovani senza ambizioni e speranze per il futuro, a genitori assenti e a docenti disillusi. L’ingresso in questo universo “sregolato” è atipico: Henry prova a “gestire” il dolore distaccandosene e provando ad instaurare un rapporto sincero con i suoi studenti, a conquistare il loro rispetto e a coinvolgerli nelle lezioni. Questo non sta ad intendere un’assenza di coinvolgimento emotivo, quanto piuttosto un approccio “sano” alle sofferenze di ognuno. Perché non si tratta solo di insegnare loro delle materie, ma di educarli al rispetto di se stessi e degli altri (prima di tutto), e a tutti quei valori che dovrebbero guidarli nelle loro scelte. Chi educa, però, non può neanche avere la pretesa di “salvare” ogni ragazzo dai possibili percorsi sbagliati che potrebbe intraprendere; da qui, allora, nasce il concetto di “distacco”, che nonostante resti un “distacco empatico”, consente di avvicinarsi al dolore senza uscirne distrutti.
Come è possibile, ad esempio, aiutare una ragazza ancora fragile ed insicura ad accettarsi, come prevenire le sue sofferenze e come impedire che percepisca degli atteggiamenti come rifiuti? Quali sono le parole da usare, i comportamenti da mettere in atto? Quanto bisogna controllare se stessi e la propria emotività? Henry si trova costretto a comprendere i propri limiti relazionandosi a Meredith, una ragazza appassionata di fotografia e ancora troppo fragile per voler bene al suo corpo e per ignorare le parole violente di suo padre: il suo equilibrio viene totalmente sconvolto. Henry vorrebbe offrirle una nuova prospettiva, che le consenta di guardarsi con “altri occhi”, ma il suo aiuto non riesce ad evitare che Meredith smetta definitivamente di volersi bene. Questo porterebbe essere, di conseguenza, definito come un fallimento? Si “vince” solo quando si salva la vita? Non solo sarebbe una pretesa fallimentare in partenza, ma anche contraria al concetto di “educare” che un professore – ma prima di tutto un uomo – tenta di perseguire. Educare al rispetto di se stessi non comporta necessariamente una maturazione, educare all’amore non comporta necessariamente l’instaurarsi di relazioni sane e profonde, educare alle regole non vuol dire evitare che si inizi a delinquere. Chi educa può fornire degli strumenti, che possono poi essere “assimilati” – come Henry insegna durante le sue lezioni – oppure non compresi, o addirittura fraintesi o distorti. Non esiste una formula perfetta (né tantomeno una scorciatoia) che permetta di eludere dei passaggi necessari alla crescita e all’acquisizione di consapevolezze; nel corso di un percorso formativo, potrà accadere che quegli strumenti forniti si rivelino sufficienti a “salvare” qualcuno, come potrà accadere che quegli stessi strumenti verranno letti in modo sbagliato.
Un istante prima dei titoli di coda compare la parola “Detachment” e – naturalmente non per problemi di spazio – appare staccata (“Detach-ment”), come a voler sottolineare il concetto di distacco. Da cosa, esattamente, si ritiene opportuno distaccarsi? Da quella sofferenza invalidante, da quella difficoltà (ad esempio) di gestire le problematiche di una bambina-prostituita che non sa riconoscere l’affetto disinteressato. Quello di Tony Kaye è un cinema in cerca dell’“estremo” – come aveva dimostrato anche in “American History X” – che sovverte il concetto “classico” di distacco, preferendo un’ipotesi differente, quella di una consapevolezza lucida nei confronti del dolore altrui, avulsa da ogni forma di egocentrismo e capace di cogliere le situazioni per quelle che sono realmente. Perché potrebbe anche accadere che, relazionandosi ad una situazione di disagio o di sofferenza, si metta al proprio posto se stessi e non gli altri; empatizzando eccessivamente, infatti, si potrebbe perdere di vista lo stato d’animo altrui. Bisogna sapere esistere e resistere, per comprendere le proprie vulnerabilità ma anche e soprattutto i propri punti di forza. “Mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo”, scriveva Camus, nella sua opera “Lo straniero”, da cui il film attinge: infatti, come nel romanzo, la madre del protagonista è morta (anche se in circostanze completamente differenti), e banche nel film, poi, parte della narrazione si svolge all’interno di un ospizio. A differenza dell’opera di Camus, però, il protagonista non commette nessun omicidio, ma la morte assume un ruolo da protagonista all’interno della pellicola.
“Detachment” non vuole suggerire l’idea che lo scopo educativo debba superare la transitorietà del ruolo: si tratta, invece, di distaccarsi un po’ da se stessi per avvicinarsi di più agli altri. Si educa, allora, anche insegnando il distacco e provando a far capire come, a volte, distanziarsi dalla realtà aiuti a non soccombere. La sfida consiste nel riuscire a restare lucidi nel saper comprendere le responsabilità, ma anche e soprattutto i limiti. Perché la difesa si misura anche dalla distanza. Ed è emblematico che il protagonista sia un supplente: nonostante “sfiori” le vite degli studenti senza instaurare un legame permanente, ambisce comunque a trasmettere loro qualcosa. “Detachment” sottolinea l’importanza delle diversità e dell’informazione: l’educazione dovrebbe avere lo scopo di preservare le menti eludendo così l’omologazione. Quando, poi, non si riescono a trovare le parole adatte per descrivere un momento o un’emozione, si può fare ricorso alla poesia o all’arte: così, Edgar Allan Poe o George Orwell possono aiutarci ad esprimere anche l’inesprimibile.