LA PIOGGERELLA DI MAGGIO

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   –   di Vincenzo D’Anna   –                                                   

Per fortuna dei suoi governanti il popolo italiano, nella maggioranza dei casi, ha memoria corta e quasi sempre la coscienza sporca. Troppo lungo lo Stivale e fin troppi i popoli che, nel corso dei secoli, lo hanno abitato, per poter riconoscersi in un unico patrimonio genetico come elemento distintivo di una razza. Ci sarebbe poi da aggiungere un ulteriore rimescolamento genetico al quale hanno contribuito le decine di occupazioni che la Penisola ha subito, nel corso dei secoli, da parte di popoli e dinastie straniere. Prima dell’impero romano, greci, osci e sanniti nell’Italia meridionale, piceni ed etruschi in quella centrale, celti e galli nell’Italia settentrionale, rimescolarono ben bene i caratteri antropologici e genetici degli antichi italici. Poi venne Roma, col suo maglio unificante, e, subito dopo, l’epoca delle invasioni barbariche. In disparte le influenze arabe in Sicilia e lungo tutta la costa del mar Tirreno, a completare la miscellanea delle caratteristiche originarie del Belpaese. Insomma non c’è mai stato un originario elemento fondante di un’unica razza, ma solo una continua sedimentazione culturale che si è sovrapposta nel tempo. Solo l’Urbe seppe piegare una moltitudine di popoli conquistandoli prima col ferro poi coi codici e le leggi, secondo le usanze della cosiddetta Pax Romana, scegliendo il meglio di quelle popolazioni per infoltire le legioni e per governare l’impero. La carta vincente per amalgamarle fu quella di riconoscere anche ai non romani lo status di “cittadino” facendolo crescere ed istruire secondo i comandamenti di Roma. Ma si trattò di un arguta modalità di gestire l’elemento multietnico in un impero che aveva vastissimi territori che coprivano quasi tutto il mondo civilizzato di allora. Un collante che si disperse nei primi secoli dopo Cristo con il disfacimento del dominio dell’Urbe. Con queste queste premesse era impensabile che gli italiani fossero, antropologicamente parlando, un popolo ed una razza unica ed unita. Infatti il disegno di Cavour e del Risorgimento ancor oggi è di la da venire, ed ancora deve compiersi il proposito di fare gli italiani dopo aver fatta l’Italia. Certo la recente storia patria ha generato diverse occasioni per rinsaldare l’identità di popolo. Pensiamo ad esempio alle due guerre mondiali o alle altre grandi tragedie che hanno fortemente contribuito a creare un minimo comune denominatore tra gli italiani. Da nord a sud sono ancora moltissimi quelli che si commuovono e si sentono uniti al suono del canto del Piave e dell’inno di Mameli, che si prodigano durante le calamità per soccorrere i compatrioti. Ma non tutto è compiuto e non tutto è stato ridotto ad un’unica consapevole cittadinanza. E tuttavia l’indole votata al frazionismo, al solipsismo, alla rivendicazione campanilistica è ancora predominante con i dialetti che diventano lingue autonome e la cesura tra settentrione e meridione non ancora rimarginata. Un lungo excursus per evidenziare non tanto la mancanza di unità d’intenti, quanto per rimarcare che lo Stato viene ancora considerato un patrigno, e che questi considera sudditi più che cittadini i propri amministrati. Le diverse origini ancestrali, le caratteristiche genetiche, le culture ed il modo d’agire ed intendere la cittadinanza sono ancora troppo distanti tra noi. Se un dato unitario si può cogliere è quello delle cattive abitudini, del fare levantino, del considerarci estranei quando si deve dare ed uniti quando si deve prendere. Una mentalità che non conosce confini, un’inclinazione che porta gli italiani ad indignarsi quando l’ingiustizia non porta ad essi alcun tornaconto. È questa la condizione che nei decenni ha originato il regime politico clientelare: un sistema condiviso di espedienti per trarre personali vantaggi a scapito di un comune senso di patria e di doveri verso la collettività. In casi del genere, l’etica pubblica soccombe in favore del particolare e del soggettivo. Una nazione che si tiene in piedi attraverso espedienti simili, non può che avere l’eterno riproporsi del calcolo utilitaristico ed opportunistico. Il debito pubblico? Altri non è che la naturale conseguenza di politiche compromissorie verso blocchi sociali ed elettorali, il prezzo da pagare per ottenere il consenso, l’etica delle specifiche tribù. Campioni di questa politica compromissoria ed accondiscendente furono gli ultimi democristiani, eredi degeneri di padri nobili e capaci. Idearono un sistema di potere attraverso il quale saccheggiarono l’erario. Ad Arnaldo Forlani, che fu un interprete di quella stagione di dissipazione, fu chiesto perché il governo non si preoccupasse dell’aumento del debito statale. Egli rispose che distribuire risorse poteva equipararsi alla pioggerellina di maggio che lascia crescere ogni cosa in campagna. Poi venne il reddito di Cittadinanza portato da coloro che si dissero campioni dell’onestà e della verità. Fu in tal modo che si ripropose nel tempo l’idea di uno Stato alla mercé’ dei tanti, senza futuro e con un popolo senza comune identità.

*già parlamentare