di Mariantonietta Losanno
M. Night Shyamalan mette alla prova tutto il suo cinema attraverso un esperimento: si serve di un gruppo di personaggi promettenti ma mal disegnati finiti su una spiaggia su cui – per ragioni misteriose – si invecchia alla velocità della luce. Mette insieme i loro corpi e (soprattutto) le loro menti; in ognuno di loro, però, vivono più delle ventiquattro personalità di Kevin di “Split”: il risultato è, quindi, un insieme di nevrosi e di effetti paranormali. M. Night Shyamalan si compiace e osserva – anzi, spia – dal suo binocolo (ossia la sua macchina da presa) tutta la sua filmografia, godendosi un’occasione irripetibile, soprattutto di fronte alle lancette dell’orologio che scorrono così in fretta.
Ed è stata proprio la fretta – e l’approssimazione – ad avere influito negativamente sulla caratterizzazione dei personaggi e sullo sviluppo della narrazione che si avvicina troppo (purtroppo) all’atmosfera horror-thriller de “La cura dal benessere” di Verbinski e troppo poco all’inquietudine ispirata – ed ispirante – de “Il sesto senso”, l’opera che ha consacrato il successo di Shyamalan. “Old” vuole (o meglio vorrebbe) riflettere sullo scorrere del tempo e sulla vanità dell’esistenza. Il vero nemico dell’umanità contemporanea è proprio il Tempo, un avversario che non può essere affrontato e al quale è impossibile sfuggire. Il regista sovverte le regole “classiche” del genere scegliendo un’ambientazione diurna, come a voler sottolineare che non è necessario che ci sia l’oscurità della notte perché il Tempo “colpisca”. Una volta che ha colpito, poi, ne conseguono una serie di riflessioni sulla paura di morire, sul terrore di sprecare attimi irripetibili e su come, in realtà, tutte queste angosce non aiutino a rendere migliore quello che si ha.
Shyamalan riflette sul Tempo nel cinema e del cinema. Non si tratta, però, di riflessioni illuminate come quelle di Ingmar Bergman ne “Il settimo sigillo”, quanto piuttosto di un bisogno di servirsi di un tema – in questo caso il tempo, appunto – per poter trovare risposte osservando da lontano. È come se il regista stesso avesse necessità di “aggrapparsi” ad un tema così inflazionato come il Tempo per chiarire quegli interrogativi sul senso della (propria) esistenza. Diventa, allora, una riflessione sul cinema stesso e non solo sull’invecchiamento e sulla perdita progressiva (piuttosto accelerata in questo caso) degli affetti. Shyamalan controlla i suoi personaggi nell’intento di comprendere non di spaventare; nonostante ci siano tutti gli elementi e li usi per “giocare” e suscitare paura, a creare davvero terrore è il senso della fine. Perché non si tratta di un gioco al massacro, ma di persone (e non personaggi) che abbandonano i propri figli e perdono lucidità fino a spegnersi. Tutto questo risulterebbe più credibile se il film, però, calcasse meno la mano sulle nevrosi esasperandole. La riflessione sul Tempo alla base del film è interessante (soprattutto quando i due adolescenti capiscono che tutti i loro potenziali ricordi sono sul punto di essere loro sottratti), l’ambientazione anche (intrigante come quella di “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” di Lina Wertmüller e criptica come quella di “Dieci piccoli indiani” di René Clair); il problema è che è proprio Shyamalan ad essere spaventato e a trasmettere paura: emergono i suoi limiti e le sue incertezze. “Old”, tratto dalla graphic novel “Castello di sabbia”, è l’espressione del bisogno del regista di dialogare con il (suo) cinema per poter accettare il peso dei ricordi, il senso della fine e di una vita vissuta a pieno. Per poterlo fare si serve di un cast e di una serie di strumenti narrativi che conosce (in parte “riciclati”) che lo aiutano a sentirsi più a suo agio e a concentrarsi maggiormente sul valore della vita. I dialoghi spesso grotteschi, però, sminuiscono probabilmente gli intenti della pellicola che, come tutte le precedenti, si presenta come un viaggio assurdo e fuori dalla realtà, ma con spunti di riflessione (almeno in partenza) più interessanti.