di Mariantonietta Losanno
Uno sguardo felino apre il film. Una scena di violenza carnale si sta svolgendo di fronte ai suoi occhi: echeggiano rumori di colluttazione e versi di dolore. Un uomo mascherato ha appena compiuto un’effrazione nella casa di Michèle Leblanc, per poi aggredirla e violentarla. Dopo questo episodio, la donna riprende la sua vita, quasi come se l’evento non l’avesse turbata.
Michèle è una donna ricca e di successo, figlia di un serial killer che è in prigione da anni, e che rifiuta di vedere. Gestisce un’importante società di videogiochi e, oltre ad avere un passato luttuoso, ha una vita particolarmente intricata. Un ex marito – scrittore fallito – per cui prova ancora gelosia; un figlio senza nessun talento particolare e con l’unica voglia di diventare padre ma con la ragazza sbagliata; un amante, una madre ultra sessantenne che gioca a fare la ragazzina, una migliore amica, moglie del suo amante; una coppia di vicini, suoi nuovi amici (lei cattolica praticante devota e bigotta, lui bancario). Il padre, che si intravede solo dalle immagini alla televisione, o da foto d’epoca, è condannato all’ergastolo per aver compiuto una strage trent’anni prima, il cui marchio d’infamia si è riversato negli anni su Michèle. La sua scelta – che il regista volutamente rende ambigua – è quella di non denunciare la violenza subita e, addirittura, iniziare a rincorrere il suo violentatore.
Non siamo (soltanto) di fronte a un thriller. “Elle”, tratto dal romanzo del 2012 “Oh” di Philippe Dijian, è un film complesso, che possiamo provare a definire attribuendogli tre aggettivi: spiazzante, potente e piacevole. La forza delle immagini, dell’interpretazione della protagonista, e della fitta trama, rendono questo film un capolavoro. Un film audace, che prende le distanze da ogni aspettativa, e prende letteralmente in giro i cliché. Il pronome Lei sta ad indicare l’emblema di una donna: Michèle è una donna aggrovigliata da frustrazioni, desideri inconfessabili di piacere e dolore, invidie, perversioni. È una donna criptica. Non è così frequente nel cinema convenzionale vedere personaggi femminili di questo genere, così complessi, e così padroni di sé. “Vorrei continuare a essere l’attrice che sono sempre stata. Appassionata. E totalmente libera”: questa è stata la risposta di Isabelle Huppert alla domanda “Se pensa al suo domani, cosa desidera?”. E questo è l’emblema del suo personaggio: una figura fuori dagli schemi, una donna che ha un approccio alla recitazione diverso e a volte perfino enigmatico. Pur interpretando – in “Elle” – una donna misteriosa, altera, talvolta persino inquietante, riesce a suscitare l’empatia dello spettatore, inducendolo a smarrirsi in un universo sconosciuto.
Lei, sottolineando ancora una volta la forza del pronome personale, è il vero mistero e il vero pericolo del film. È Lei che uccide tutti, e mette a tacere le ipocrisie del suo ambiente borghese. L’occhio dello spettatore cade nella trappola e rimane affascinato per tutta la durata del film. Nessun filtro. La furia masochista dell’annullarsi fra le braccia di un violentatore di cui scopre l’identità, viene scatenata; l’inquietante perversione di Michèle si trasforma da stupro ad atto liberatorio. Non tutte le ipocrisie sono state, però, annullate: restano in piedi – purtroppo – quelle di coloro che ritengono “Elle” un film-scandalo e accettano le convenzioni di una società dove vige la religione mistica, la fedeltà assoluta, il perbenismo. Il film di Verhoeven (regista di altri precedenti capolavori come “Basic Instinct” (1992), “Atto di forza” (1990), e “Quarto Uomo” (1983), pertanto, è assolutamente sopra le righe, coraggioso e estremo.
“La mia Michèle è un’eroina post-femminista. È un personaggio complesso, che non si definisce soltanto per lo stupro subìto, ma per l’insieme della sua vita e dei suoi comportamenti: è infatti la madre di un figlio fragile, ha a sua volta una mamma un po’ “pazza”, un ex marito, un amante ed è un boss sul lavoro. Gestisce le situazioni con il pugno di ferro, ma ha attraversato dei drammi, ha paura degli uomini e reagisce alla violenza aggredendo”. Queste sono state le parole di Isabelle Huppert su “Elle”. Philippe Djian, scrittore del romanzo da cui attinge il film, ha immaginato proprio lei per interpretare questo ruolo così drammatico. E non avrebbe potuto essere altrimenti, perché la sua Michèle è uno di quei ruoli impossibili da dimenticare: superba, sensuale, prudente, avventata, implacabile e capace di fondere gli stati d’animo più distanti fra loro.
Isabelle Huppert domina totalmente la scena, trascinandoci in una storia misteriosa e affascinante. Una storia di continue violenze, una storia femminista (anche se il concetto viene esasperato), perché Michèle non si lascia definire dall’abuso subito. “Elle”, però, non è un film sull’elaborazione della violenza, né un film sulla vendetta. Il regista mischia (o, meglio, torna a mischiare) sesso e violenza per farli confluire in un’idea di cinema atipica, amorale ed ambigua. Il nome Michèle si pronuncia allo stesso modo del corrispettivo maschile; ed infatti, si comporta “come siamo abituati a veder comportarsi gli uomini” (ha potere, fa ciò che vuole senza dare spiegazioni, è padrona di sé e della sua vita – soprattutto quella sessuale – ed è totalmente libera); non le interessa essere né vittima né carnefice; ma, soprattutto, non le interessa mentire. In un universo – non solo cinematografico – in cui tutto mentono agli altri e anche a se stessi, Michèle quando sceglie di nascondere la violenza subita lo fa con coscienza e al tempo stesso ricerca il proprio piacere e benessere agendo senza scrupoli: resta fedele a se stessa. Il suo è un equilibrio che potrebbe essere additato come non corrispondente a tutti i principi morali, ma che funziona perfettamente proprio perché è sincero. “Elle”, quindi, potrebbe essere – apparentemente – il racconto di una Lei “qualsiasi” e al contempo di una “Lei” specifica. Una Lei che, in realtà, non può essere nessuno oltre Lei.