“PADRI E FIGLIE”: LE VARIE FORME DI AUTODISTRUZIONE CHE SCATURISCONO DAL DOLORE

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di Mariantonietta Losanno 

Dal titolo non è difficile capire di cosa tratterà il film, eppure non è così scontato. La storia di Jake Davis (Russell Crowe) e sua figlia Katie (Amanda Seyfried) non è solo l’analisi di un rapporto padre-figlia, ma il racconto di due diverse reazioni al dolore. 

Jake, dopo la morte della moglie in un incidente d’auto si ritrova a dover crescere la figlia da solo, e a gestire problemi fisici e mentali che lo costringono anche ad un temporaneo ricovero presso un ospedale psichiatrico. Katie viene affidata alla zia, sorella della madre, che prova un profondo rancore nei confronti di Jake e tenta anche di intentare una causa per l’adozione. Il racconto si sposta, poi, a venticinque anni dopo: Katie è diventata un’assistente sociale ed è capace di aiutare gli altri ma non se stessa. Ricerca costantemente rapporti sessuali occasionali, rifiutando di instaurare legami. Si concede a chiunque per cercare di sentirsi meno vuota, provando a colmare il suo dolore. 

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Analizzando le due differenti reazioni scaturite dal dolore, vediamo come – seppure in forma diversa – siano entrambe forme di autodistruzione. Il problema di Katie è la “non amabilità”, che non sta ad indicare un basso livello di autostima (anzi, Katie seduce costantemente gli uomini consapevole del suo fascino), ma una difficoltà di identificarsi come un soggetto “degno” di amore e, di conseguenza, in grado di poter amare. Sente di aver perso ogni cosa (ed è per questo che non ha limiti nell’esporsi, nel provare esperienze forti, nell’assaporare ogni forma di evasione, sapendo di non aver più nulla di importante da perdere), e crede di non poter meritare ancora amore. Ed infatti, quando incontra un ragazzo interessato a conoscerla e non a passare con lei solo una serata “approfittandosene”, cerca di mandarlo via; nel farlo, prova a spaventarlo, a dimostrare il suo cinismo, fino a quando non sceglie di compiere un gesto capace di farlo allontanare in modo definitivo. Preferisce che lui non provi stima per lei, che arrivi a valutarla in modo negativo; preferisce persino che lui creda che lei sia una persona privi di scrupoli e di sentimenti, pur di non ammettere di avere paura. Nel momento in cui si concede e conquista tutte le sue “prede” sente di avere il controllo e questo la fa sentire forte, persino invincibile; quando si tratta, invece, di mettersi in gioco, Katie non riesce ad accettare che l’amore possa ancora far parte della sua vita e che ci possano essere persone che non l’abbandoneranno. È una forma di autolesionismo, un meccanismo di difesa che si basa sulle dinamiche di seduzione ma che sfugge ai legami concreti. Nel momento in cui permette a più persone di possedere il suo corpo, sente di non poter soffrire, né – paradossalmente – di denigrare se stessa e la propria persona. Nel suo lavoro, poi, resta lucida e attenta, capace di comprendere i bisogni delle persone con cui si interfaccia. È che preferisce provare “qualcosa” vivendo brevi momenti di passione, piuttosto che provare a comprendere che può ancora fidarsi di qualcuno, meritare di essere amata e provare a dare amore. Purtroppo ad un reale presa di coscienza ci arriva solo dopo aver toccato il fondo. 

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Quella di Jake è, invece, una forma di autodistruzione che scaturisce dal senso di colpa più che dal dolore. Sente di essere responsabile della morte di sua moglie, sente di non essere un buon padre e un buono scrittore, pensa di non avere più neanche “diritto” di vivere. È solo per Katie – che “ama più dell’ultimo numero” – che si sforza di reagire, provando a curarsi, ad impegnarsi nel lavoro e a starle vicino con tutte le sue possibilità. È costretto, però, a lottare con la sua malattia, con i suoi tormenti, con i “perfidi” zii di Katie. E, purtroppo, il peso di tutte queste cose, non riesce a reggerlo.

“Padri e figlie” si muove in equilibrio tra passato e presente, caricando (forse) un po’ troppo alcuni aspetti e forzando compassione e commozione. Il rapporto tra Jake e Katie è emozionante per la sua intensità ma, soprattutto, è “illuminante”. Ci sono tanti figli che credono che i loro genitori siano esseri irreprensibili, incapaci di commettere errori. Vedere come Jake si mostri debole e, soprattutto, colpevole, fa riflettere su come, in molti casi, siano anche i genitori a dover chiedere scusa. E, anche se non si ha il coraggio – o la possibilità – di chiedere scusa, ci si deve perdonare. Così come sbaglia un figlio, può sbagliare un padre. E, probabilmente, si cresce quando si prende consapevolezza di questo.

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Muccino – già a suo agio con un cast internazionale dopo “La ricerca della felicità”, “Sette anime”, “Quello che so sull’amore” – fa quello che gli riesce meglio: film per il grande pubblico difficilmente criticabili, almeno all’apparenza. Ed è per questo che sceglie una delle canzoni più belle e struggenti, ossia “Close to you” di Burt Bacharach, come simbolo del legame tra padre e figlia nel film.