IL FATO ED IL BUFFONE

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di Vincenzo D’Anna*

ROMA – Oggi lo chiamano, sbrigativamente, “destino”, cosa diversa dal “fato” così come fu inteso dagli antichi Greci. Quello ellenico, infatti, era una forza bruta che interveniva anche senza ragione, cambiando la vita degli uomini. Una forza alla quale fu sottoposto finanche Giove, re dell’Olimpo e padre di tutti gli Dei. Senza scomodare la mitologia possiamo ricorrere alla saggezza popolare di un vecchio detto: “tutto sta scritto”. Nessuno, insomma, sfugge alla sorte. Si potrebbe laicamente obiettare che l’aforisma popolare trova riscontro nella scienza, in quel ramo della biologia che si chiama Genomica. Da qualche anno gli scienziati hanno la possibilità di conoscere, in laboratorio, la sequenza dei geni che compongono il DNA. Lo possono addirittura manipolare, tagliare e ricucire con l’uso di speciali tecniche, fino ad arrivare a leggerlo nella sua intima composizione. In futuro cureremo le malattie tramite la genetica predittiva e con la medicina personalizzata. Il lungo processo evolutivo che ci ha portato alla nostra attuale capacità cognitiva è durato millenni ed è frutto sia del caso che della necessità biologica. Un processo teleologico, ovvero munito di un progetto prestabilito, di evoluzione funzionale ci ha cambiati più che il fato stesso. Per dirla con altre parole: siamo più il frutto di un accadimento fortuito ( mutazioni e rotture del DNA ) che programmato secondo il destino, scritto da superiori entità trascendenti. Sono stati eventi più dovuti al caso che ci hanno fatti progredire nella scala biologica evolutiva ma nulla, in seguito, si è perfezionato se non per necessità . Tuttavia, per non suscitare sconcerto nei credenti: se tutto è scritto, nelle mani di un Dio creatore, quel tutto viene custodito evidentemente dentro il nostro materiale genetico. Una serie di riflessioni sull’umana sorte, sul destino cinico e baro, torna alla mente allorquando si osserva il video realizzato nei giorni scorsi da Beppe Grillo. In quel filmato, diventato immediatamente virale, si vede quello che fu il capo di una rivoluzione civile urlata e farlocca, il fautore di un rilancio dei valori etici e della moralizzazione della politica, si riduce ad un ottuso difensore delle ragioni del figlio, accusato di uno stupro di gruppo. Un umanoide degradato dalla rabbia e dal rancore. Una vicenda che da anni giace tra le polverose carte dei tribunali, nel mentre l’Italia giudiziaria aveva altre premure. La comunità nazionale era attratta dai racconti salaci sulle feste che Silvio Berlusconi dava in compagnia di belle donne. Una nazione intera, con alla testa un pubblico ministero nella persona di Ilda Bocassini, si interrogava e si consumava nel dubbio per scoprire se Ruby Rubacuori fosse o meno la nipote di Hosni Mubarak, e se fosse stata o meno maggiorenne quando si era intrattenuta col Cavaliere. Anni di intercettazioni telefoniche, processi lampo con udienze a cadenza bisettimanali, condanne esemplari venivano chieste per il leader del primo partito italiano. Le televisioni di Stato imbastivano veri e propri sceneggiati sulla vicenda, andati in onda a mezzo di trasmissioni condotte dai soliti indomiti moralisti, impersonati dai giornalisti affiliati a quella sinistra politica divenuta finanche bigotta e bacchettona, pur di eliminare il Cavaliere per via scandalistico-giudiziaria. Per i (presunti) stupratori nossignore: si può attendere. Nessuno ha urgenze e pruderie. Che le cose andassero per le lunghe frega niente a nessuno. Alla faccia del “garantismo”, oggi stranamente invocato dal garante del Movimento pentastellato . Lo stesso che anni addietro, atteggiandosi a capo dei rivoluzionari, aizzava la folla al rancore sociale, contro le degenerazioni della politica e delle istituzioni parlamentari, mentre il suo socio in affari, Gianroberto Casaleggio, invocava la ghigliottina per coloro che venivano raggiunti anche solo da un semplice avviso di garanzia. Si ipotizzava addirittura la soppressione di quel principio di civiltà giudica e costituzionale chiamato presunzione di innocenza. Un’orgia di brutalità giuridica politica , di mancanza di qualsiasi temperanza, equilibrio e limite, che doveva spazzare via il malcostume ovunque questo si annidasse. Oggi Beppe Grillo si chiede perché il figlio sia finito alla gogna per un reato che, per quanto riprovevole, è ancora da accertare definitivamente con una sentenza passata in cosa giudicata. Il comico genovese invoca obiettività e se possibile di scontare egli stesso direttamente la pena in vece del suo pargolo che, in fondo, giocava e ballava, candidamente, innanzi ad una donna, senza mutande. Il principale cruccio, la rabbia e la ribellione innanzi alla telecamera, Grillo la giustifica perché non comprende come si possa essere crudeli e spietati con il figlio per colpirne il padre. Dimentica egli quale metro ha utilizzato, in passato, con gli altri, molti dei quali poi assolti ma definitivamente travolti dal pubblico disdoro. La risposta è semplice: il figlio paga non solo per il reato che probabilmente potrebbe aver commesso, ma anche per i precedenti del padre improntati alla violenza verbale, alla menzogna, al dileggio di chiunque egli si trovasse a giudicare. Il fato, come forza incoercibile, si è fatto destino e presenta un conto molto salato al buffone a cinque stelle.

*già parlamentare