di Vincenzo D’Anna*
Chiunque sia stato un uomo pubblico in una certa epoca, credo abbia dedicato più tempo ai problemi della collettività che a quelli del proprio nucleo familiare. Era questo il lascito deficitario che pesava sulla coscienza di chiunque militasse assiduamente tra le fila di un partito di massa del secolo scorso, oppure fosse stato eletto amministratore di un ente pubblico. Erano, quelli, i tempi della partitocrazia, dei partiti ideologici, dei blocchi e delle contrapposizioni internazionali in un mondo reso plumbeo e greve dalla “Cortina di ferro”, come la definì icasticamente Winston Churchill. Una barriera geo politica che separava l’Europa (ed il mondo libero occidentale) dal blocco sovietico (e dei suoi paesi satelliti). Una ipotetica “trincea” che si materializzò nel 1961 allorquando fu eretto il muro di Berlino che divise materialmente la Germania ed il mondo politico di allora in due blocchi: Est da una parte, Ovest dall’altra. Di tutta questa storia, dello scontro tra libertà e tirannia, tra capitalismo e comunismo, tra società aperta e società massificata, non saprei dire cosa sia rimasto, oggi, nella mente dei giovani e dei più adulti, se non quello che Giovannino Guareschi rese celebre con i personaggi di Peppone e Don Camillo. Eppure furono anni duri e sanguinosi, quelli di cui stiamo parlando. Anni in cui Nazioni come l’Ungheria e la Cecoslovacchia tentarono di sottrarsi al regime marxista ed all’abbraccio mortale dell’Urss. Gli ungheresi insorsero nel 1956 pagando col sangue la loro rivolta, schiacciati dai carri armati inviati da Mosca per reprimere quella che i sovietici ebbe la faccia tosta di etichettare come “controrivoluzione borghese”. Imre Nagy l’eroico primo ministro che aspirava a realizzare un socialismo da volto umano, fu preso in consegna dal Kgb e poi eliminato in circostanze mai del tutto chiarite, dai suoi carnefici. Lo stesso capitò ai Cechi nel 1968, con la cosiddetta “primavera di Praga” ed il suicidio di un giovane studente Jan Palach che si arse vivo per protestare contro la repressione militare imposta dai russi e dai loro alleati del patto di Varsavia. Non passarono che pochi anni ed ecco che, dall’altro capo del mondo, in Cile, la destra reazionaria capeggiata dal generale Pinochet rovescia nel sangue il governo del socialista Salvator Allende, eletto democraticamente, sopprimendo migliaia di militanti di sinistra (ma non solo di quella componente politica). Era questo il contesto nel quale la politica si realizzava, le passioni e le aspre contrapposizioni internazionali orientavano blocchi sociali e posizionamenti ovunque nel mondo. Il Vecchio Continente era pervaso dalla rivoluzione studentesca e dalla sua deriva marxista verso il Maoismo. Le formazioni extra parlamentari assediavano le Università e le fabbriche salvo poi sfociare tragicamente, di lì a poco, in quella che divenne la lotta armata del terrorismo in Italia con le “brigate rosse”. La politica non era salottiera, la televisione più sobria con le tribune politiche senza talk show e programmi politicizzati. La rivoluzione cibernetica di internet, del mondo del web e dei social network era ancora di là da venire non avendo dunque ancora stravolto gli usi e le cadenze esistenziali del mondo intero, come accade oggi. Un lungo prologo, il nostro, per rimarcare quanto diverse e profonde siano state le mutazioni sociali derivanti dal progresso tecnologico e con esse, di riflesso, quali profonde modifiche si siano riverberate nel contesto della vita dei partiti politici. Innanzi a questa esemplificazione della storia dei popoli, dei costumi sociali, del contesto geo-politico dell’ultimo mezzo secolo, appare chiaro che il ritorno al passato è assolutamente improponibile. Ciò nonostante da più parti si invoca il ritorno a forme più serie ed organizzate di partiti politici, al ritorno alle identità culturali ed ai valori distintivi e caratteristici che dovrebbero essere dietro un movimento politico, secondo i diversi modelli socio economici prefigurati. Ma questo giusto anelito di ritorno alla qualità dell’agire in politica non va confuso con la malinconia per il passato e men che meno con un’ipotesi di percorribilità a realizzare la resurrezione, dalle proprie ceneri, dei vecchi partiti del secolo scorso. Essere moderati una volta aveva il significato di legiferare tenendo conto delle esigenze di tutte le categorie sociali, di saper amalgamare i contrasti. L’interclassismo democristiano era la teoria adeguata per farlo. E’ di questi giorni la notizia che un consigliere regionale della Campania ha proposto una chat line con tutti gli altri suoi colleghi che, come lui, si sentivano “democristiani”. L’idea pare abbia avuto successo enorme con l’adesione all’iniziativa di ben il cinquanta percento degli eletti (!). Tuttavia credo si tratti più di un idem sentire che di una sorta di “affinità elettiva”, di un moto di rivedersi, insomma, in una comune storia passata pur rimanendo al servizio di un diverso padrone politico. Insomma è come avere nostalgia per gli antenati. Gli “Antenati”, però, narrati da Italo Calvino, vale a dire: storie araldiche di personaggi e mondi inesistenti.
*già parlamentare
Ancora una volta si va strutturando un pantagruelico moto di apicalizzazione di capacità fondato su un management storico-sociale arbitrario e lapalissianamente infervorato e permeato di visioni epidermoidali dei grandi stravolgimenti della società storica. La diagenesi tafonomica della realtà stadiata non è mai humus catabolico rigenerativo sociale.
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