di Mariantonietta Losanno
Città del Messico. Un incidente stradale è il pretesto per raccontare tre storie diverse. Nella prima, Octavio è un ragazzo che vive in periferia e che vorrebbe fuggire con Susana, la moglie di suo fratello Ramiro. Per mettere insieme i soldi sfrutta il suo cane per violenti combattimenti illegali. Susana, però, lo tradisce rubandogli i soldi e scappando con Ramiro. I protagonisti della seconda storia sono Daniel e Valeria: lui ha lasciato la moglie e i figli per andare a vivere con lei – che fa la modella – e il suo cane. Valeria, però, perde una gamba nell’incidente che apre il film e non riesce ad accettarlo; Daniel cerca di consolarla, dandole il suo supporto, ma i due sembrano non riuscire più a comunicare. Infine, nella terza storia, un terrorista di estrema sinistra – che per vivere ammazza gente su commissione – vuole cercare di riconquistare l’amore di sua figlia, che lo odia per averla abbandonata.
Il filo conduttore delle tre storie è la sofferenza: solitudine e disperazione sono ovunque. I cani sono protagonisti in tutte le vicende (come suggerisce il titolo, in spagnolo “perro” significa cane) ma, a differenza degli uomini, sembrano essere l’unico conforto. E se si incattiviscono è solo colpa dei suoi padroni: un cane diventa una bestia solo perché è il suo padrone ad esserlo. Dunque, per riflesso. Gli uomini invece sono per natura egoisti, violenti e traditori. Il mondo di Iñárritu è spietato: non c’è nessuna speranza e nessuna redenzione. C’è una tristezza insostenibile che fa da cornice a tutte le storie: in “Amores perros” Iñárritu ci parla di infelicità e di drammi personali che non trovano una risoluzione. Nessuna conciliazione: quello di Iñárritu è un esordio alla regia duro, disincantato, pieno di rabbia. “Amores perros”, il primo dei tre film – insieme a “21 grammi” e a “Biutiful” – che formano la “Trilogia sulla morte”, è un film “che morde” e fa male. Iñárritu sfrutta uno scherzo del destino per raccontare – senza mai fare incontrare i protagonisti delle tre storie – esistenze completamente distanti fra loro accomunate dalla loro disfatta.
L’amore “morboso” per i cani accomuna i tre mondi raccontati dal regista messicano: “Amores perros”, più che un film, è un’analisi accurata della condizione umana: è un’esplosione di dolore aberrante. La crudezza è eccessiva e disturbante, tanto che viene quasi da coprirsi gli occhi con le mani per la paura. Eppure, non c’è nulla che faccia realmente paura: “Amores perros” non è un thriller né tantomeno un horror. Però, la paura, o forse la vergogna o il rifiuto, ci sono: immergendosi in storie così dolorose si cerca di difendersi – per quanto è possibile – per non venirne assorbiti. Il futuro sembra essere solo un’utopia.
Si preferirebbe quantomeno collocare altrove tutto il dolore che contraddistingue queste realtà tanto crudeli, perché eliminarlo sarebbe impossibile.