di Mariantonietta Losanno
“Tradire significa uscire fuori dai ranghi. Tradire significa uscire dai ranghi e partire verso l’ignoto”, ha scritto Milan Kundera. Marco Bellocchio sceglie come punto di partenza una pagina ben nota e dolente della nostra storia – più o meno recente – e la mette in scena alla sua maniera fedele, documentaristica è crudele. “Il traditore”, presentato a Cannes, trionfatore ai Nastri d’argento e successivamente selezionato per rappresentare l’Italia ai premi Oscar 2020, è un film focalizzato sulla figura di Tommaso Buscetta (Pierfrancesco Favino), un pentito della mafia. Bellocchio, riesce andare anche al di là dei confini del caso affrontato, raccontando gli imperdonabili peccati del nostro Paese e dello Stato – criminalmente assente – in generale.
Ci troviamo nella Sicilia degli anni Ottanta: è guerra aperta tra i Corleonesi, capitanati da Totò Riina, e Cosa Nostra, il cui capo Tommaso Buscetta è rifugiato in Brasile. La polizia federale lo stana e lo riconsegna allo Stato italiano, dove ad aspettarlo c’è il giudice Giovanni Falcone, che vuole da lui una testimonianza dettagliata così da poter smontare l’apparato criminale mafioso. Buscetta decide di collaborare, diventando “la prima gola profonda della mafia”: però, il vero traditore per lui è Pippo Calò, che non ha protetto i suoi figli durante la sua assenza.
Bellocchio si è sempre dedicato alla realizzazione di progetti fortemente personali, nei quali la sua personalità poteva esprimersi liberamente: “Non credo sia giusto” – spiega – “attuare una scissione tra vita personale e attività professionale. Ho sempre cercato una coerenza tra l’essere un cittadino e l’essere un artista”. Ci sono sempre, però, due dimensioni: quella intima (film come “I pugni in tasca”, “Sorelle mai”, “Sangue del mio sangue”, sono fortemente autobiografici), e quella pubblica e politica (“Buongiorno, notte” racconta la tragedia del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro; “Vincere” è un melodramma di denuncia che analizza il privato di Benito Mussolini). “Il traditore” è un film sulla morte. “Si muore sempre per qualcosa. La morte ci accompagna”, dice Giovanni Falcone a Tommaso Buscetta durante un interrogatorio. Si muore e basta. E per Bellocchio non è la prima volta che si parla di morte: in “Fai bei sogni” aveva parlato di elaborazione del lutto, o meglio della sua possibile rimozione; ne “Il traditore” Buscetta continua a ripetere a tutti di non avere paura di morire, ma viene continuamente angosciato dall’idea di non poter andarsene in pace nel suo letto (tanto da arrivare a sognare il suo funerale), perché la scia di morte lo segue fino alla fine dei suoi giorni. La pellicola è costellata di morti e di funerali. Buscetta è un personaggio ambiguo ma sicuramente memorabile: con le sue confessioni ha messo in ginocchio Cosa Nostra contribuendo all’arresto di almeno trecento persone. Ha le sembianze di un essere umano: piange per i suoi figli, parla di valori, dimostra “fedeltà”.
“Il traditore” è un film politico e intimista, come tutto il cinema di Marco Bellocchio. Un’opera che ci fa conoscere Cosa Nostra attraverso gli occhi di uno dei suoi protagonisti, abbandonando gli stereotipi. Buscetta si mostra come un mafioso diverso dagli altri, un capo che si definisce un “soldato semplice”: nel corso degli interrogatori e dei processi spiega le sue ragioni, racconta le attività illecite, denuncia tutti i membri dell’organizzazione mafiosa. E alla morte di Giovanni Falcone soffre, il suo pentimento aumenta e sembra persino sincero. Il regista procede unendo l’aspetto di denuncia a quello più personale, fornendo una visione inedita del mondo mafioso. Nonostante ci siano molti omicidi, “Il traditore” non vuole essere (solo) un cinema di ammazzamenti continui, ma preferisce raccontare un personaggio per trovare dentro di lui qualcosa di interessante da approfondire. Questo non vuol dire presentare Buscetta come un eroe, ma significa scavare a fondo per comprendere: Bellocchio aggiunge qualcosa in più, realizzando un racconto storico con uno sguardo rivolto alla figura di un uomo che torna sui propri passi perché realmente pentito. Rispetto ad un’analisi celebrativa e stereotipata, Bellocchio racconta la storia di uomini reali con nomi e volti scolpiti nell’immaginario collettivo. La violenza c’è, ma non è tanto quella delle torture, delle sparatorie e delle esecuzioni, ma quella verbale dei processi e quella dell’omertà.
Bellocchio non calca la mano, descrivendo la vicenda in tutta la sua interezza: Buscetta viene raccontato come uomo e come mafioso. Il quadro che ne deriva è completo ed esaustivo. Così come il racconto si presenta come di appartenenza e di rifiuto, così le due angolazioni – privata e politica – si dimostrano necessarie.