di Mariantonietta Losanno
“La beffa più grande che il Diavolo abbia mai fatto è convincere il mondo che lui non esiste”, recita Kevin Spacey – citando Baudelaire – nel finale dell’indimenticabile “I soliti sospetti”. È paradossale come, pur non avendo nulla in comune, il cult anni ‘90 diretto da Bryan Singer somigli all’horror di Pupi Avati (per la struttura, il racconto filtrato – e manipolato – da un punto di vista, il colpo di scena spiazzante); la coincidenza ancora più incredibile è che, nell’ultima scena de “I soliti sospetti” venga citato proprio il Diavolo.
Anni Cinquanta. Il giovane ed ingenuo funzionario ministeriale Furio Momenté viene incaricato di occuparsi di una questione delicatissima: un bambino ha ucciso un suo coetaneo pensando di uccidere il Diavolo. Fascino macabro, religione, superstizione e un violento omicidio: “Il Signor Diavolo” è un “signor film” e, come tutte le opere di Pupi Avati, è espressione di un cinema personale e riconoscibile. In più, segna il suo ritorno all’horror (al suo “gotico padano”), il genere cinematografico con cui ha esordito cinquant’anni fa con “Balsamus, l’uomo di Satana”. Insieme a Lucio Fulci, Dario Argento e Mario Bava, tra gli Settanta e Ottanta, Avati si è presentato come uno dei più interessanti registi di horror italiani, abile nel mettere in scena l’orrore che si nasconde dietro l’apparente normalità della vita quotidiana. Tra l’altro, ne “Il Signor Diavolo” anche le “pedine” di questo gioco cupo sono persone che hanno già caratterizzato il suo cinema: Alessandro Haber, Lino Capolicchio, Gianni Cavina, Andrea Roncato, Massimo Bonetti, Chiara Sani, Fabio Ferrari.
Ogni volta che Avati si dedica all’horror, dunque, le aspettative sono alte – così come le possibilità di deludere il pubblico – proprio perché, oltre alle sue commedie dal sapore agrodolce, che hanno saputo cogliere la natura umana e i sentimenti, il regista bolognese ha firmato dei capolavori che hanno lasciato un segno nel genere horror italiano.
Negli anni Cinquanta la superstizione guidava completamente le scelte di vita, anzi, spesso le credenze dominavano sul concreto e sul razionale e si sovrapponevano persino alle leggi.
Si sa, il (signor) Diavolo si nasconde nei dettagli, e Pupi Avati è capace di creare dettagli ricchi di sfumature e di significati reconditi. Il pubblico entra in questa folle vicenda con lo stesso atteggiamento del protagonista: è inerme, assiste inconsapevole all’evoluzione di una vicenda spaventosa, viene proiettato all’interno di una realtà che non conosce. Il regista, invece, conosce bene questa realtà e sa perfettamente dove disseminare gli indizi, senza bisogno di ricorrere a particolari effetti o a eccessive scene efferate: la sua cifra stilistica – che lo rende un personaggio inconfondibile – resta integra. La storia è avvincente, affascinante ed equilibrata nel suo essere disturbante. Tutto torna: a quei luoghi, a quelle tradizioni, a quel fascino macabro. Tratto dal suo omonimo romanzo, “Il Signor Diavolo” è una storia “deformata” (proprio come Emilio); è un racconto impregnato di un’incorporea, ma percepibile oscurità. “Nella cultura contadina”, dice uno dei personaggi, “il diverso e il deforme vengono associati al demonio”. È l’innocenza del protagonista a stonare in tutto questo contesto: la sua onestà e il suo impegno nel venire a conoscenza della verità sono l’unica certezza in un contesto in cui nulla è realmente ciò che sembra.
Assolutamente conforme alle regole dell’hotel più puro, il film con cui Pupi Avati torna alle origini esplorando il genere a cui legò i suoi esordi, funziona: riapre le porte al macabro, inquieta, non eccede (nonostante tratti tematiche religiose), e non cade negli stereotipi. C’è molto da approfondire.
L’8 febbraio 2021 è stato distribuito su Sky “Lei mi parla ancora”, l’ultima pellicola di Avati, un film nostalgico, tratto dal romanzo di Giuseppe Sgarbi.