di Mariantonietta Losanno
“Prima regola: proteggersi sempre”, ripete costantemente Frankie a Maggie. Come se fosse un monito per lei e per se stesso, come se si volesse difendere anche lui, non tanto dai colpi, ma dalle sofferenze. Se solo ci fosse un modo per potersi proteggere da tutto, uno scudo che difenda da qualsiasi tipo di attacco. Basta essere lucidi e attenti per evitare di ricevere “colpi”? E se anche si riuscisse ad essere così scrupolosi e vigili, sarebbe sufficiente in ogni circostanza?
Maggie Fitzgerald irrompe – letteralmente – nella vita dell’anziano manager di pugilato Frankie e, seppur inizialmente si trova costretta a scontrarsi con la sua riluttanza, riesce a convincerlo ad allenarla. Maggie vuole diventare una campionessa: per lei la vita comincia e finisce con la boxe. Frankie, però, ha plasmato la sua esistenza su un semplice – ed agghiacciante – ragionamento: bisogna proteggersi dalla sofferenza, dunque, è meglio eliminare le illusioni, le speranze ed i sentimenti. Cosa resta, allora? Solo delle regole da seguire pedissequamente. La vita lo ha sempre messo nella condizione di misurarsi con il dolore (sia suo che di altri) e ne sente la responsabilità, per questo preferisce che gli atleti cerchino altri manager da cui poter imparare. Soprattutto se si tratta di Maggie. Allenarla significherebbe condividere la sua passione, lasciarsi pervadere dalla sua determinazione: sarebbe, quindi, un’atto d’amore. Però, anche Frankie decide di abbassare la guardia per un attimo, e la vita ancora una volta – l’ultima – gli infligge un ko definitivo.
Clint Eastwood non ha mai sbagliato un colpo. Le sue opere sono “vero” cinema, anzi, vera poesia.
”Million Dollar Baby” è una pellicola disincantata, malinconica, straziante e sognante; è l’emblema di un cinema così denso da lasciare storditi. È un film sul senso di colpa (che si esprime nella rabbia per l’amico che è rimasto ferito dopo un incontro, ma soprattutto in quello di un padre che ha perso da tempo i contatti con la figlia), sul bisogno di redimersi e di perdonarsi. Frankie trova in Maggie la figlia che non ha più, inizialmente la respinge per paura di rimettersi in gioco e di esporsi, di dichiarare un amore paterno che pian piano diventerà sempre più inarrestabile ed incontrollabile. “Per forza” non può allenarla, e non perché lei è una donna e la boxe è uno sport da uomini, ma perché starle vicino significa correre il rischio di soffrire ancora. Clint Eastwood, però, non mente mai e con la sua assoluta, violenta e perfetta tragicità mette in scena un’opera riconciliante con la vita, l’amore e la religione. C’è un luogo intimo e sicuro dove poter custodire l’amore, dove è possibile ripercorrerlo, riviverlo infinite volte; è un luogo doloroso, ma permette di proteggere anche quello che sembra essere perduto per sempre.
“Million Dollar Baby” è una lunga lettera d’amore con un lieto fine. Frankie “ritorna” in vita, riesce a provare di nuovo l’emozione di tenere a qualcuno: non si tratta di un film sulla boxe, ma sui rapporti umani, sulle esistenze costrette a scontrarsi con le perdite e con il dolore. Ci si emoziona, ci si commuove, si soffre. Eppure, quello che resta, è solo tanta speranza.
“Million Dollar Baby” parla coraggio e di paura con estremo pudore, affronta con consapevole fermezza anche i temi più complessi e dolorosi. Nonostante la crudeltà dell’esistenza, l’amore si può ritrovare e, soprattutto, conservare. Clint Eastwood racconta il faticoso riscatto di tre “perdenti” (Frankie, Maggie e Scrap) senza mai mostrarsi banale o ridondante, o ostentando la lacrima facile: la pellicola si mantiene perfettamente in equilibrio tra la speranza e la rassegnazione. Maggie è e resterà sempre il “tesoro” e il “sangue” di Frankie (così come è scritto sull’accappatoio che le regala): “Million Dollar Baby” è una riflessione su ciò che resta, non su ciò che si perde, è un’analisi accurata e profonda dei sentimenti e dei percorsi di maturazione, delle difficoltà di fare i conti con se stessi e di provare a trovare la forza per perdonarsi.