di Mariantonietta Losanno
“Non è il Lupin che conosciamo!”, ha detto gran parte della critica. E infatti non lo è. Di fatto, il protagonista della serie Netflix (in cima alla top 10 delle più viste) ispirata alle avventure del ladro gentiluomo è Assane Diop, la cui vita è stata segnata – all’età di quattordici anni – dalla morte del padre. Venticinque anni dopo decide di indagare, per capire e vendicare, ispirandosi alle imprese di Arsène Lupin, narrate nei libri regalati proprio dal padre (e che lui stesso tramanderà al figlio) che rappresentano un forte legame con il genitore. Tutto parte dal furto di una preziosa collana (anzi, “la” collana per eccellenza, quella di Maria Antonietta) dal Louvre, un gioiello legato alla morte del genitore, accusato di averlo rubato: Assane capisce che qualcosa non torna nel modo in cui quella vicenda è stata riportata ed è convinto che le accuse rivolte al padre siano infondate.
In parte la critica ha ragione: non è il “classico” Lupin. Il motivo, però, è probabilmente fin troppo banale: il classico c’è già e in nessun caso potrà essere “spodestato”. Se si dovesse ragionare così per ogni grande opera allora non ci sarebbero dovute essere neanche le rivisitazioni cinematografiche di Agatha Christie: il rapporto fra una tra delle più importanti autrici del secolo scorso e il mezzo cinematografico è molto stretto; i suoi gialli, per la loro natura conoscitiva e per la qualità degli intrecci, si prestano facilmente ad essere adattati per il grande schermo, come dimostrano la quantità incalcolabile di trasposizioni realizzate. “Lupin” attinge e rielabora il mito del personaggio creato da Maurice Leblanc: la serie è una rivisitazione piacevolmente leggera (ma non per questo banale) che rappresenta un Lupin dei “giorni nostri”, capace di utilizzare anche la tecnologia informatica e i droni, ma che non eccede, onorando la tradizione senza pretendere di eccellere. Omar Sy è carismatico, affascinante, divertente; la storia si dipana su un doppio binario, dove da una parte si susseguono i tentativi di trovare giustizia e dall’altro quelli per scoprire la verità sul passato e su come si sia stato incastrato il padre: ogni episodio ha la propria caratterizzazione, il che comporta un grande partecipazione da parte del pubblico. Furti, rapimenti, infiltrazioni in carcere, evasioni, alleanze con giornalisti: il tutto avviene mentre la polizia indaga su Assane, ma pare che anche le forze dell’ordine siano coinvolte nel complotto che ha portato alla morte del padre. La messa in scena non è mai tanto cruenta da perdere “leggerezza”, si alternano momenti divertenti ad altri più malinconici: tutti questi elementi confermano la riuscita della serie, nonostante la sterile polemica scoppiata sin dalle prime immagini e nei primi dettagli sull’ambientazione moderna.
L’Arsène Lupin del XXI secolo, in tuta e cappello, convince. La serie mette in scena l’antieroe dal cuore d’oro in un modo da non oltraggiare mai l’opera di Leblanc. Omar Sy è un perfetto ladro gentiluomo: è elegante nelle movenze, non ricorre alla forza per raggiungere i suoi obiettivi, è astuto e ironico, le sue “armi” sono i libri del suo scrittore preferito. È appassionante il modo in cui Assane si adoperi per riabilitare l’onore del padre: piuttosto che lottare a mani nude, per scoprire la verità, il “nuovo Lupin” dovrà fare leva sulla sua intelligenza. Il “Lupin di Netflix” è un individuo dai mille volti, riesce a cambiare continuamente volto, origini e nome; il fatto che tutte le “trasformazioni” avvengano in un contesto moderno (come la fuga fra i rider) è un valore aggiunto, non un motivo per storcere il naso. Omar Sy rende credibile ogni situazione, si muove a suo agio sia nelle dinamiche di azione che in quelle personali del personaggio. La serie prodotta da Gaumont e distribuita su Netflix è una sottile rete di rimandi incrociati, indizi e piccoli omaggi: la penna di Leblanc – ancora una volta – viene messa in gioco senza apparire mai datata.