CONTANO I MISSILI NON LE PAROLE

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–   di Vincenzo D’Anna*   –               

E’ di queste ore la notizia che Vladimir Putin ha ordinato la costruzione – senza limiti – di nuovi missili ipersonici in grado di colpire, in breve tempo, tutta l’Europa. Dopo aver rimpolpato il proprio esercito, dissanguato in terra ucraina, con migliaia di soldati Nord Coreani, il despota del Cremlino si appresta ad inasprire ulteriormente la guerra contro Kiev. Una guerra nata dal desiderio di riportare la Russia agli antichi splendori di un tempo consentendole così di recitare un ruolo di prima grandezza nei futuri scenari del nuovo ordine mondiale, magari a discapito degli Stati Uniti, storici “gendarmi” della Terra e prima potenza economica e militare del globo. Putin ha deciso questa mossa nel momento in cui alla Casa Bianca sta per insediarsi Donald Trump, un presidente che punta tutto sull’arroccamento degli Usa entro i propri confini, imponendo dazi alle merci in entrata ed indebolendo le forze Nato con la richiesta di contributi per l’ombrello protettivo offerto dall’esercito a stelle e strisce. Che dire? Tutto sembra convergere per ritenere il tycoon di New York una sorta di emulo di Lord Chamberlain. Quest’ultimo fu il primo ministro britannico che, con il premier francese Édouard Daladier, accordò fiducia ad Adolf Hitler sottoscrivendo, con lui (sotto la “regia” di Benito Mussolini) il patto di Monaco nel 1938, con il quale si accettava supinamente il colpo di mano nazista sui territori cecoslovacchi a maggioranza linguistica tedesca. Il tutto nella speranza che il führer si accontentasse di quel che aveva già sottratto con la forza ad un inerme Stato sovrano. Quella debolezza, meglio ancora quella tragica illusione assunta contro ogni cognizione storica, fu stigmatizzata da Winston Churchill, il successore di Chamberlain a Downing Street, con la famosa frase “Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra”. Nel periodo di pace armata Hitler trovò il tempo di stabilire un patto di non belligeranza con il suo omologo comunista, il dittatore Iosif Stalin, spartendosi con lui anche la Polonia. Bisogna davvero essere a digiuno di quei fatti oppure mostrarsi presuntuosi per poter immaginare che si possa fare a meno di questa tragica lezione!! Ignoranza e saccenteria, tra l’altro, ben si attagliano al nuovo presidente statunitense il quale si appresta a reggere il timone degli States da incolto ed orecchiante!! Trump eredita un’America piegata su se stessa, avvitata entro una politica protezionistica dal respiro corto e miope, che si culla nell’illusione che sia ancora possibile prosperare in pace entro l’egocentrico assunto “America first, prima l’America”. L’esatto contrario di tutto quello che ha reso gli Usa il punto di riferimento dei paesi democratici dell’Occidente fondati sulle libertà individuali ed economiche, sui diritti civici, sulla prosperità sociale, sulla loro difesa incastonata in una magna carta costituzionale. Qualcuno dovrebbe ricordare al neo inquilino della Casa Bianca che la politica è l’arte del divenire e che non bisogna smettere di guardare alla storia come maestra di vita rinnegando i valori fondativi della nazione. Ormai è lampante: Washington si prepara ad un “appeasement”, ossia all’acquiescenza politica! Si converte ad una pace conseguita a prezzo di gravi concessioni morali e materiali, con il il rischio di perdere tanto l’autorevolezza, quanto la fiducia e lo spazio privilegiato per i propri commerci e mercati. Se i Russi fanno i gradassi, si armano ostentatamente e coinvolgono un altro Stato nel conflitto come la Corea del Nord, lo fanno perché hanno valutato l’autolesionismo e l’inconsistenza della nuova politica estera americana. Gli aggressori, da che esiste il mondo, non si fermano innanzi ai profeti disarmati, agli irenici ad oltranza, a chi si tira indietro. Eppure i consiglieri del bizzarro miliardario newyorchese dovrebbero ricordare al “comandante supremo” del loro esercito quello che Stalin rispose a coloro che, durante la conferenza di Jalta, gli facevano presente le esigenze di Pio XII sul futuro assetto da dare all’Europa. La guerra stava per finire (si era nel febbraio del 1945), i russi erano ormai alle porte di Berlino. Mancava davvero poco al redde rationem. Il Vaticano faceva sentire la propria voce poggiandola sull’autorità morale del Pontefice e sulla dichiarata avversione di Papa Pacelli nei confronti del nazionalsocialismo fin da quando egli era stato Nunzio Apostolico in Germania. La risposta del dittatore sovietico fu di quelle lapidarie: “Quante divisioni ha il Papa?” come a voler dire che le sorti delle nazioni sarebbero state affidate alle armi che ancora in quei giorni tuonavano sul campo. Quando Trump avrà ritirato le proprie divisioni dall’Europa la stessa risposta potrebbe sentirsela ripetere dai Russi, dai Coreani e forse anche dai Cinesi. Evidentemente contano i missili non le parole.

*già parlamentare

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