CAPUA – Il 10 novembre, al Teatro Ricciardi di Capua, “Pig Bitch”, di Marina Cioppa, regia di Michele Brasilio, con Marina Cioppa e Stefania Remino. Lo spettacolo è stato semifinalista Premio Scenario 2021.
Pig Bitch (trad. lett. Porca Puttana): in scena due personaggi, una porca e una puttana. La Porca interpreta il personaggio affibbiatole dalla società per la sua fisicità abbondante. La Puttana interpreta la condizione di sentirsi sporca di fronte alla società. Entrambe in contrasto con se stesse appaiono distanti da quel che ci si aspetta che siano. La porca mangia compulsivamente barrette ai cereali che compra al costo di 50 cent di Euro l’una al distributore. La puttana offre il suo corpo magro, piacente di donna giovane giunta dall’est, cerca una vita migliore da quella offertale nel suo Paese. La società come giudica personaggi così? L’industria del sesso e quella dell’alimentazione carnivora seguono gli stessi processi e svendono la stessa merce, la carne. Si indaga l’etimo di porca puttana. Ma cosa lega davvero le due donne? L’incontro è in una piazzola di sosta, c’è un distributore, due panchine, tutto intorno si apre un luogo che non si vede, ma si “sente”. Perché diventano amiche? Perché continuano a vedersi? Cosa le accomuna? E siamo poi così sicuri di essere spettatori scevri da pregiudizio o qualcosa dentro la nostra tradizione educativa ci porta ad escludere delle ipotesi?
In Pig Bitch – dichiara Brasilio – la scena si popola di due figure solitarie, due archetipi umani che rispecchiano e ribaltano le aspettative sociali: una porca e una puttana. La Porca e la Puttana, due epiteti che la società spesso usa per ridurre una persona a una definizione, incarnano non solo dei corpi e delle storie, ma anche lo stigma, il giudizio e la disillusione. In un’area di sosta desolata, luogo di transito e di anonimato, queste due donne si incontrano, si osservano e, forse senza rendersene conto, si riconoscono l’una nell’altra. La Porca, che cede alla compulsione del cibo come unico conforto, sfida la società esibendo il proprio corpo abbondante. Questo stesso corpo viene bollato e giudicato, quasi a voler rendere la sua presenza una minaccia, un segno di fallimento personale, una porca. La Puttana, esile e desiderabile, incarna il corpo mercificato, il sogno di fuga da un Paese che non le ha dato futuro, ma che le ha lasciato addosso il peso di una nuova “sporcizia” morale, il marchio di chi vive ai margini. La nostra società commercializza la carne, fisica e simbolica: il corpo diventa oggetto, la vita si monetizza. La porca e la puttana sono, in fondo, pedine nella stessa rete: si trovano a condividere un legame profondo, anche se inconsapevole. Entrambe sono donne che si confrontano con un destino crudele, impresso nei pregiudizi e nei miti che le circondano. Il nostro intento è quello di esplorare queste etichette – “porca” e “puttana”– scavando nel loro etimo e nelle radici profonde del giudizio collettivo. Ma al contempo, la messa in scena si rivolge allo spettatore: quanto è davvero libero da queste convenzioni? In che misura possiamo definirci immuni dai pregiudizi quando osserviamo queste figure sul palco? Questa piazzola di sosta, con il distributore, le panchine e lo spazio vuoto che si percepisce intorno, diventa simbolo di un luogo fuori dal mondo e al tempo stesso di uno spazio interiore che si fa specchio delle nostre convinzioni. Qui, dove due esistenze si incrociano e si scontrano, la Porca e la Puttana finiscono per riconoscersi al di là dei ruoli. Perché diventano amiche? Qual è la solitudine che le accomuna e che le spinge a vedersi ancora, una volta dopo l’altra?